1923, Inisherin, isola immaginaria a largo dell'Irlanda.
Mentre impazza la guerra civile irlandese, il musicista Colm Doherty comunica al pastore Pádraic Súilleabháin la fine della loro amicizia. Quest'ultimo, dopo un'iniziale incredulità, tenterà in tutti i modi di capire le motivazioni di tale scelta, ma riallacciare i rapporti coll'antico amico si rivelerà una discesa nelle sabbie mobili.
E ogni rinascita ha sempre il sapore dolciastro del sangue.
Il coraggioso Martin McDonagh, dopo l'inquietante ma irrisolto In Bruges - La coscienza dell'assassino (2008), e il toccante Tre manifesti a Ebbing, Missouri (2017), prende la sua ultima pièce teatrale dalla Trilogia delle Isole Aran e la traduce in immagini.
La regia è minimal e si affida totalmente a una scrittura eccezionale, alla bravura della già collaudata coppia Farrell - Gleeson (favolosi), e alla magìa dei luoghi.
Tante e densissime le tematiche in atto, dalle metamorfosi dell'amicizia, alla quotidianità che sa tradursi in follia, per non parlare delle costanti meditazioni sulla solitudine (ontologica e fisica), compendiate dalla dolente costatazione di Doherty: noi tutti cerchiamo di divertirci aspettando l'inevitabile.
Gli spiriti del grossolano titolo italiano sono in realtà le celebri banshee del folklore irlandese, letteralmente le donne delle fate, il cui lamento era presagio di morte.
Miglior sceneggiatura ai Golden Globe 23.
Da non perdere.
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