Regia di Alain Resnais vedi scheda film
Alain Resnais è un regista che in Italia ha avuto quasi sempre – salvo rare eccezioni - meno riconoscimenti ed estimatori di quanto le sue capacità creative avrebbero meritato. Spesso è stato addirittura liquidato con frettolosa superficialità come un cineasta freddo, formale e accademico interessato solo alla sterile sperimentazione del linguaggio in forme talvolta estremizzate e di vacuo e arido intellettualismo fine a se stesso. Tutto questo esiste nel suo cinema, è fuori di dubbio e lo caratterizza fortemente: fa parte della sua poetica la meticolosa “ricerca formale”, il gusto personalissimo per l’inquadratura e i movimenti di macchina, la lentezza sincopata del montaggio, la frammentazione dei tempi, l’insolito rapporto con il tessuto sonoro, lo scavo nella recitazione degli attori inusuale quanto fruttuoso negli esiti, l’attenzione alla parola e persino un certo “cerebralismo cervellotico”, ma non ci si può assolutamente limitare ad emettere il giudizio tenendo conto soltanto di questa angolazione, perché le chiavi di lettura delle sue opere sono sempre molteplici e non univoche. Queste peculiarità più volte bollate come “difetti strutturali” soprattutto da una certa corrente di pensiero fortemente in auge negli anni in cui Resnais è stato più produttivamente fecondo, rappresentano invece ai mie occhi – ma non solo e per fortuna - “ornamenti” che definiscono “qualità di inestimabile valore arricchente” – non velleitarismi meramente autoriali – che rendono “pregiato” il risultato complessivo del prodotto, contraddistinguono indelebilmente il caratteristico “modo di essere artista” dell’autore e impreziosiscono quel suo particolarissimo stile capace di fondere con l’impronta della genialità immagini, parole e suoni in unicum difficilmente scindibile. Dovrebbe quanto meno essergli riconosciuto il merito di aver contribuito a rendere possibile l’apertura di nuove frontiere adesso usualmente battute anche dal cinema più commerciale, grazie alle sue “ideazioni” visive con le quali ha “reinventato” il tempo cinematografico e “riscritto” lo spazio interno dell’immagine con una intelligente e insolita duttilità che gli ha consentito di adeguare (quasi sempre) il suo stile (pur rimanendone autonomo) alla diversa struttura ritmica degli script – fondamentali e determinanti come raramente accade in questo settore e dai quali non è assolutamente possibile prescindere – che sono la base di ogni sua “esplorazione” in immagini. La “letterarietà” dell’impianto si può praticamente ritrovare in ogni sua realizzazione, ed è stupefacente rilevare come Resnais riesca a differenziare anche profondamente l’approccio – lasciandolo comunque riconoscibilissimo – a seconda delle componenti stilistiche del copione da cui trae origine l’operazione: più che in altre circostanze, nel suo caso si può persino affermare che i risultati finali si modificano camaleonticamente a seconda degli indirizzi che prende la parola e sono strettamente correlati al grado di “affinità elettive” esistente fra regista e “narratore”. Basterà analizzare la sua filmografia per rendersi conto di questa incontrovertibile verità: alla base di ogni progetto c’è una “scrittura importante”, il cui apporto creativo non è assolutamente casuale: quello della Duras per “Hiroshima”; Alain Robbe-Grillet e le teorizzazioni suggestive del “nouveau roman” per “Marienbad”; Jean Cayrol (che già aveva contribuito alla stesura antiretorica dello script di “Nuit e bruillard”) per “Muriel”; George Semprun e la sua corposa prosa accusatoria fortemente politicizzata per “La guerra è finita” e “Stavisky”; lo stile più ambiguamente insinuante di Jaques Sternberg per “Je t’aime, Je t’aime – anatomia di un suicidio” (decisamente fra i risultati più deboli e meno significativi); David Mercer per “Providence” (che probabilmente rimane a tutt’oggi il traguardo più alto raggiunto, la punta di massimo “splendore” dove sperimentalismo formale e sostanza narrativa si fondono compiutamente in perfetta simbiosi); le tesi sociobiologiche di Laborit rielaborate in forma di sceneggiatura dialogata da Jean Gruault (ad oggi il collaboratore più frequentemente utilizzato) autore anche del più dispersivo divertissement de “La vita è romanzo”; lo scanzonato recupero di un autore di commedie un tempo di moda come Henry Bernstein per “Melo”; il ricorso alla corrosiva causticità di un geniale “inventore” di fumetti come Jules Feiffer per “Voglio tornare a casa”, la disincantata visione sorniona delle commedie di Alan Ayckbourn riadattate da due outsider di “luminoso avvenire” come Jean-Pierre Bacri e Agnés Jaoui per il doppio esperimento incrociato di “Smoking e No Smoking” e per le successive “provocazioni” in musica di “Parole, parole, parole…”. A questa “dualità” classicheggiante non si sottrae nemmeno “L’amour à mort”, a mio avviso (e nonostante il diverso parere di una fetta importante della nostra critica) un’opera nella quale si riescono a raggiungere i sublimi vertici della poesia assoluta, nella illustrazione di sofferenze ed eccessi, con un pudore e una sensibilità fuori del comune (ed è ancora una volta Jean Gruault - già responsabile dello script per “La camera verde” di Truffaut, dove affrontava tematiche similari seppure in un’ottica e con una prospettiva diversa – a confermarsi sodale col regista predisponendo una sceneggiatura dai dialoghi inappuntabili). Si avverte dalla appassionata aderenza creativa e dalle qualità superiori assegnate alle parole di questa singolare esplorazione dell’impalpabile confine fra la vita e la morte, un coinvolgimento emotivo molto profondo, capace per questo di restituire intatto il “miracolo” della credibilità nonostante l’osticità del tema trattato. Il linguaggio di Resnais ha sicuramente ascendenze che potrebbero essere davvero definite “musicali”, tanto analoghe risultano le assonanze strutturali della costruzione, e quest’opera non si sottrae a questa classificazione. Allora, se “Hiroshima” si può rappresentare come “una sinfonia con voce solista”, potremo identificare al contrario “L’amour à mort” come un’opera polifonica su quattro tonalità fra “canto e controcanto” o ancora, tenendo appunto conto della sua “specialissima” costruzione visiva, “come una sorta di adagio per quartetto d’archi, dalle accensioni improvvise e rapinose, dove ogni voce è un rintocco dell’anima, e ogni timbro lo strumento che ci trapassa il petto” (la definizione – più o meno in questi termini - è di Giovanni Grazzini, uno dei pochissimi estimatori entusiasti innamorati della pellicola, che salutò proprio con queste calorose parole la non felicissima presentazione al Festival di Venezia del 1984, dove nonostante il luogo privilegiato e contrariamente a quanto si sarebbe potuto immaginare, le affascinanti qualità della messa in scena, il rigore formale e l’emozionalità “spartana” della progressione drammatica degli avvenimenti, trovarono davvero maggiori perplessità e negazioni che consensi. Certamente si tratta di un’opera dura e difficile (quasi ossessiva), cupa e straziata che niente concede alla “spettacolarizzazione” degli eventi e del dolore. Decisamente la più “semplice” e lineare pellicola di tutta la produzione del regista come impianto narrativo generale (ma sicuramente non la meno innovativa e provocatoria) tutta “suonata” su note alte, quasi disarmoniche, certamente monocorde e “rettilinea” come progressione, ma capace proprio in virtù di queste caratteristiche peculiari, di “lacerazioni” e “turbamenti” profondi, assimilabili per molti versi proprio alle “dissociazioni timbriche” delle stridenti e dissonanti musiche di W. H. Henze che scandiscono i ritmi e le pause delle 51 “sequenze” – separate e divise come capitoli - con altrettante inquadrature “vuote” (quasi dei siparietti astratti, o delle scansioni atonali) di uno schermo “buio” e amorfo virato sulle tonalità dal nero al blu scuro, con una sola variazione degradante verso il celeste, e talvolta attraversato – quasi “ricamato”– dalla aerea inconsistenza di piccolissimi fiocchi di neve. Contrappuntato dall’antitetico rapporto fra fede e passione e concentrato sull’analisi stringente di ogni gesto e parola, il film ha una struttura che si avvicina molto alle tematiche Bergmaniane, così segnato com’è da “quell’urgenza di un confronto fra dogma laico e dogma religioso” e capace per questo, al pari dei capolavori del regista svedese, di “rispecchiare” (acquisendolo e facendolo proprio) il dolore e lo sconcerto che rappresenta il nostro “smarrimento quotidiano” di fronte alle troppe domande che non trovano risposte, per l’ansia di un futuro sempre più sfuggente e di una condizione esistenziale che continua a riconoscere alla morte l’insostenibile “incertezza” del tabù riscattabile forse soltanto – più che da ciò che può definirsi fede – dalla idealizzazione immaginariamente concreta di un possibile “ricongiungimento” post-mortem che consegni all’eternità la sublimazione neo-romantica dell’amore eterno “oltre la vita”. Il soggetto mette in scena la storia dell’amore profondo che lega Elizabeth a Simon, un archeologo che soffre di frequenti “crisi” che determinano la perdita totale di conoscenza (forse attacchi di epilessia) simili a delle piccole morti, che gli fanno immaginare al risveglio, di essere un resuscitato, e per questo nuovamente attaccato alla vita, ma al tempo stesso fortemente attratto dalla voglia di “ritrovare la musica” ascoltata “al di là della riva” che si concretizza in una ossessiva fascinazione per il suicidio, unico mezzo possibile e disponibile per poter nuovamente accedere “all’altra dimensione” ed essere così nuovamente circondato da quella impercettibile, meravigliosa “certezza” di serenità recuperabile solo nell’oasi di luce e di gelo nella quale gli era sembrato di aver trovato riposo in quegli attimi di distacco. Quando l’ultimo attacco del male determinerà “veramente” la fine della sua vita, il trapasso sarà agognato e straziante, ed Elizabeth, in un ultimo anelito, gli prometterà di seguirlo al più presto, così da potersi ricongiungere definitivamente e per sempre. Inutilmente consolata da una coppia di pastori protestanti, non desisterà dal progetto vagheggiato, caparbiamente decisa a non tradire l’impegno assunto in punto di morte e porterà per questo a termine stoicamente l’insano proposito, avviandosi verso il fiume dove intende trovare il “definitivo riposo” per le proprie sofferenze. Jerome, il pastore protestante, instillerà inutilmente il dubbio, insinuando che forse nell’al di là c’è solo il regno del nulla” e nient’altro, ma questo non servirà a scalfire la fede della certezza superiore di quel “ritrovamento eterno”a portata di mano: “Muoio perchè voglio incontrarlo di nuovo” dirà Elizabeth, e saranno queste le sue ultime parole prima che le acque la sommergano. Davvero pochissimo frequentata in questi anni, sia in sala che in Tv (scandalosamente avara di titoli per altro qui da noi in Italia l’offerta dei “possibili” recuperi della filmografia di questo regista sia in Vhs che dvd - e nemmeno questo titolo sfugge alle colpevoli, inammissibili omissioni) rimane opera misconosciuta e “segreta” che emana un fascino raro proprio in virtù delle misteriose pulsioni che suscita il ricordo di quella sua ascetica composizione pausata dagli “spazi” di schermo buio, fortemente evocativa, ma al tempo stesso “distaccata” così da impedire oggettivamente l’immediato coinvolgimento emotivo dello spettatore e da obbligarlo invece a confrontarsi con la riflessione critica che la sedimentazione pacata delle immagini di questo impenetrabile tragitto tende a rendere ancor più intimamente “ragionata”. L’azione si condensa soprattutto sulla essenzialità espressiva dei comportamenti, affidandosi al rapporto potente dei primi piani di volti spesso “segnati e sofferenti” o attraversati da visionarietà estatiche, contrapposti alla sobrietà di “sfondi scenografici” molto francescani. Eccezionale come al solito l’uso di una fotografia dai guizzi improvvisi che si “accende” di luce caldissima nelle scene d’amore, perfettamente sincronizzata nei risultati sulle ascendenze atonali dell’acre commento sonoro. Irreprensibili, come già accennato, i dialoghi, oggetto di un controllo serratissimo che non lascia spazio alle “stecche” o alle inutili devianze. In ultima analisi insomma, una pellicola dalla quale ci si distacca davvero malvolentieri che incide profondamente non solo sulle coscienze, ma anche sull’immaginario, così meditatamente essenziale e sentita come è, intelligente e impegnativa nella sua immediatezza disturbante e capace per questo di offrirsi alla commozione partecipata di ogni coscienza pensante. Tutta mantenuta sui livelli alti della creatività, ha alcune scene che raggiungono una intensità “superiore" difficilmente obliabile, come quella in cui Simon cercando di sforzare la memoria, "tenta" di rappresentare l’attimo della morte che ancora lo affascina, e tuttavia si aggrappa “rabbiosamente” a quella vita che vorrebbe perdere (probabilmente uno dei momenti più intensamente poetici non solo del film, ma del cinema e della sua storia) o ancora quelle dei dibattiti teologici col pastore e sua moglie, con particolare riferimento al "momento" della scoperta della Bibbia sulla quale Simon ha segnato i passi in cui si parla della morte, o tutte quelle che “accompagnano” la costruzione del personaggio di Elizabeth, figura emblematica che appartiene (e rappresenta) una generazione e un ceppo che non intende porsi interrogativi superiori: la sua religione è Simon , l’amore che li lega il suo Dio e a lei questo è sufficiente, non ha bisogno di altre “certezze” e per questo può affrontare persino la morte. Una siffatta corposità di concetti, richiede una resa in perfetta sintonia anche dal punto della recitazione, e il quartetto degli attori (Sabine Azema, Pierre Arditi, Fanny Ardant e André Doussolier) si conferma di qualità eccelsa, senza cedimenti o sfasature, mantenendosi strettamente saldo su quella linea di confine che separa il sublime da ciò che un semplice, involontario scarto, potrebbe trasformare in ridicolo. Spicca fra tutti la prova davvero maiuscola della Azema, soprattutto se si pensa che qui per la prima volta si trova ad affrontare – davvero con splendidi risultati - una parte di altissima drammaticità, a quei tempi un territorio questo a lei non particolarmente familiare.
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