Regia di Alberto Rodriguez vedi scheda film
"...il tempo che non impariamo a trattenere come ciò che pure è: una parte di noi stessi”
Un film carcerario a sfondo storico di rara potenza, bisogna ricorrere a Bresson,Siegel, Becker e Audiard per trovare uguali e Rodriguez aveva già dato, con La isla minima, prova di grande capacità di caratterizzazione di personaggi immersi in atmosfere angoscianti e claustrofobiche.
E claustrofobico non è tanto (o solo) il carcere, c’è di peggio. E’ fuori dal carcere il vero spazio angusto che non dà tregua né spazio alla giusta aspirazione dell’essere umano alla libertà e alla giustizia.
Giusta aspirazione continuamente delusa dall’historia magistra vitae che, come ben capì Cicerone, se sei un buon allievo ti insegna cose fondamentali, e guai dimenticarle, nascono illusioni fatali.
Il regime franchista ebbe il merito di essere al primo posto per durata rispetto ai regimi europei, bisogna andare almeno in Corea per batterlo. Durata che si protrasse ben oltre la morte del Caudillo se usi e costumi, burocrazia e gendarmi sopravvissero intatti fin quando morte non sopravvenne.
Nel frattempo la strada fu seminata di tanti orrori e guardare dentro un carcere ad una vicenda che si dipana per tre anni, iniziando solo pochi mesi dopo la morte del generalissimo, fornisce un buon osservatorio.
Barcellona 1977, prigione La Modelo.
Manuel (Miguel Herràn) è un contabile che ha rubato, per ingenuità mista a coglioneria, una piccola somma, 50 pesetas. Accusato di aver rubato molto di più è in attesa sine die di un processo che sembra non arrivare mai, e la condanna che l’aspetta sarà minimo di 8 anni.
Nel frattempo è sottoposto a tutte le sevizie che l’istituzione carceraria riesce a mettere in atto, senza tregua, e quando smettono i secondini, arbitri assoluti del destino dei carcerati, sono i carcerati stessi a mettere il carico da undici l’uno contro l’altro.
Storie viste, nulla di nuovo sotto il sole, ma Rodriguez non si ferma lì, c’è la Storia di un Paese alterato nel profondo, diventato incapace di reagire al sopruso. Il Copel fu un’organizzazione nata all’interno delle carceri con ramificazioni esterne per contrastare, spingere alla lotta.
Fallì, si spense per mancanza di ossigeno, qualche occupazione del tetto, qualche lancio di volantini, un po’ di respiro per lo spettatore inchiodato atterrito alla poltrona, ma poi la bolla si sgonfiò, altri decenni dovettero trascorrere perchè l’universo carcerario attirasse un’attenzione non episodica del mondo esterno.
Nel frattempo evadere rimase l’unico diritto concesso al detenuto.
Il film racconta nei titoli di coda il numero impressionate di evasioni registrato in quegli anni, a disonore del sistema che, pur esercitando violenza gratuita, non seppe neanche autotutelars abbastanza.
Abituati da secoli di storia, protetti negli ultimi decenni dal sovvertimento di tutte le garanzie del vivere civile, gli innumerevoli estimatori dei regimi sovranisti si sentirono tutelati a vita.
La tonalità marrone scuro della fotografia di Alex Catalán sa di fango e terra, dall’impotenza che annienta la volontà al risveglio della coscienza, dalla chiusura egoistica nel proprio quadrato di salvezza all’apertura all’altro, scorrono storie di uomini fatti incontrare dal caso nella più misera condizione di vita. La progressione verso un senso di solidarietà che ancora riesce a sopravvivere è costante, tenuta da mano ferma che non cede a facili uscite da binari molto stretti, eppure c’è una luce in fondo al tunnel, il caso deciderà chi si salverà, un residuo sentimento di amicizia farà il resto.
Guardando al privato sullo sfondo della grande Storia , Rodriguez sembra aver fatto sue le magnifiche considerazioni di Saramago (Lezioni italiane, ed La nuova frontiera, 2022, pg.57):
“ … quali piccole storie dipendono dalla Grande Storia, che considerazione arriviamo ad avere delle innumerevoli e infinite storie personali, di quel tempo spaventosamente perduto, il tempo che non tratteniamo, il tempo che non impariamo a trattenere come ciò che pure è: una parte di noi stessi”.
Lo sguardo che spesso Manuel lancia dalla feritoia verso l’esterno gli rimanda l’insegna lampeggiante di un locale “Immergiti nel colore”.
A volte deve bastare.
www.paoladigiuseppe.it
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