Regia di Christopher Nolan vedi scheda film
La mente umana è capace di tutto, di realizzare imprese immense, considerate fuori portata, ma anche di incappare in clamorosi abbagli, in passi falsi da pagare a caro prezzo. Di pensare e attuare soluzioni esaurienti a criticità potenzialmente letali, uscendo da un vicolo cieco che incanala verso un’apodittica deadline, per poi avventurarsi subito dopo in un altro sentiero altrettanto paludoso, se non perfino più scellerato e fatale. Un circolo vizioso e infetto, un girotondo senza fine, che continua ad alimentarsi alla luce degli errori di sempre, per giunta amplificati da un punto d’ingresso che si insedia – di volta in volta – in una posizione maggiormente compromessa.
Al contempo, l’umanità riceve/subisce/incassa input dall’alto a getto continuo, rimane incredula e disorientata, strattonata da ribaltoni continui, tra applausi scroscianti e metaforiche lapidazioni, fama sperticata e gogne improvvise, sprovvista degli strumenti necessari per un’approfondita comprensione degli eventi che avvengono sopra la sua testa.
Ricorrendo al biopic, Oppenheimer va decisamente oltre le mansioni fondanti del genere e convoca/elabora altre forme, richiama un periodo storico cruciale (più volte affrontato, ad esempio dal cinema con L'ombra di mille soli e dalle serie televisive con Manhattan) per poi espandersi in più direzioni, su quelle che aprono/sventrano tematiche etiche e altre che si addentrano nell’intimo della percezione individuale divenendo contestualmente universali.
Dopo aver affinato le sue conoscenze nel campo della fisica in Europa, dove conosce tra gli altri Niels Bohr (Kenneth Branagh – Hamlet, Assassinio sull’Orient Express) e Werner Heisenberg (Matthias Schweighofer – Heart of stone, Army of thieves), Robert Oppenheimer (Cillian Murphy – Peaky Blinders, Il vento che accarezza l’erba) torna negli Stati Uniti continuando le ricerche sulla fisica quantistica, mentre intraprende una relazione frastagliata con Jean Tatlock (Florence Pugh – Lady Macbeth, Midsommar – Il villaggio dei dannati), messa da parte quando incontra la biologa Katherine Puening (Emily Blunt – Il ritorno di Mary Poppins, A quiet place), che diventerà sua moglie.
Nel frattempo, la Germania fa progressi nello studio della fissione nucleare, spingendo Oppenheimer sulla medesima traccia, al punto che, nel 1942, Leslie Groves (Matt Damon – Jason Bourne, Will Hunting - Genio ribelle) lo recluta per governare il Progetto Manhattan, con l’obiettivo di sviluppare per primi la bomba atomica. In seguito ai brillanti risultati ottenuti, Oppenheimer acquisisce una posizione di rilievo, ma il suo punto di vista sul futuro di quest’arma di distruzione di massa lo pone in rotta di collisione con il potente Lewis Strauss (Robert Downey jr. – Iron Man, Sherlock Holmes), tanto da essere messo in discussione, torchiato da Roger Bobb (Jason Clarke – Terminator genisys, Apes revolution – Il pianeta delle scimmie), in un processo a porte chiuse che muove accuse infamanti.
Sarà una lunga battaglia, che s’inserisce nei dilemmi morali che affliggono Robert.
Già conclamato successo internazionale (ad oggi è a quota 725 milioni di dollari incassati, a fronte di una spesa iniziale di circa 100), Oppenheimer vede Christopher Nolan tornare a cimentarsi con un quadro storico (Dunkirk) dopo il mezzo passo falso dello sfortunato Tenet, confermandolo come regista smisurato e puntiglioso, che predispone un capitolato disciplinare contenente cavalli di battaglia ed evoluzioni dei processi narrativi.
Dunque, entra nei gangli e nei busillis di una fase cruciale della Storia moderna muovendosi box to box, con una banda di oscillazione estremamente ampia, coperta/solcata tramite ininterrotti sbalzi temporali, e francobolla un personaggio bigger than life, vivisezionandone – in lungo e in largo - la mente geniale e circondandolo con altre forti personalità.
Perennemente in bilico, a cominciare dal fatto di assemblare più film in uno (dal racconto di formazione fino al legal drama, transitando attraverso un’avventurosa (rin)corsa verso la vittoria), Oppenheimer offre plurime angolazioni da cui osservare. In fondo, tra scienza e psicanalisi, tratteggia un archetipo delle parabole umane rappresentate al cinema (inseguito – corteggiato – stimato – glorificato – accusato – malvisto – denigrato – osteggiato - accantonato), ma congiuntamente persegue una fremente e protratta reazione a catena.
Una concatenazione inesorabile e sigillata a doppia mandata (per vari motivi, ricorda JFK – Un caso ancora aperto), infarcita di spiccate e campali contrapposizioni - tra giusto e sbagliato, luce e tenebre, cure e radioattività -, un viatico complesso e sinuoso che passa in rassegna una variegata mistura di materia e forma mentis (in primis, tra scienza e politica che non potranno mai andare d’accordo viste le discordanti prerogative), di convinzioni ferree e altre destinate a sbriciolarsi, a sciogliersi come neve al sole. Una marcia granitica che non si lascia influenzare/ condizionare dal senso della misura, che nonostante il minutaggio pletorico deve forzatamente sacrificare alcuni fattori/personaggi, soggetta a strappi non sempre riassorbirti, nonché a un sovraccarico di informazioni.
Ciononostante, scoperchia e cementifica, plasma e propaga, perlustra e trascende, raggiunge apici notevoli nella coniugazione di immagini e suoni (l’apporto sonoro di Ludwig Goransson lascia il segno, combinandosi alla perfezione con la fotografia di Hoyte van Hoytema), mantiene il fiato sul collo e controlla/determina/etichetta le tante molecole che prende in carico.
Infine, un memorabile Cillian Murphy domina e caratterizza il film (quasi) al pari del suo autore. Il suo volto diventa una sconfinata mappa da scrutare, i suoi occhi sono un libro aperto, conflittuale e incisivo, le emozioni che emana sono impareggiabili, folgoranti e magmatiche, un valore essenziale per riempire e definire l’intero film. A fargli da contraltare, troviamo un Robert Downey jr. antitetico ai ruoli che lo hanno trasformato in una star senza confini, mentre Matt Damon conferma di sentirsi a suo agio in qualunque condizione gli si presenti, Emily Blunt delinea un personaggio controverso e il resto del faraonico cast contempla una parata di nomi di prima fascia che si accontentano anche di pochi frammenti (vedi Casey Affleck, Kenneth Branagh e Rami Malek), evidente segno che si trattava di un’occasione da non mancare per nessuna ragione al mondo (un po’ come successe tanti anni fa con La sottile linea rossa).
In sintesi, Oppenheimer è un evento dalla magnitudo esponenziale, probabilmente non il tanto atteso masterpiece, comunque sia una pellicola che rinnova – con merito e caparbietà - il rapporto privilegiato tra Christopher Nolan e il pubblico, rinsaldandolo tra i pochissimi autori in grado di arrivare alla massa sebbene non sia accomodante e non intenda regalare nulla che non sia strettamente collegato alla sua personale e stentorea visione. Un dossier dalla ragguardevole portata evocativa (oggigiorno, più che forte che mai), che discerne e vaglia, che rischia di andare in overdose, con commutazioni e intersezioni complesse, precisazioni e singoli mattoncini che vanno ad arricchire/integrare uno schedario tridimensionale, folto e ramificato.
Tra salvezza e distruzione, segreti e omissioni, iniziative e conseguenze, responsabilità e minacce, territori sconosciuti e dinamiche che si ripetono con atarassica ripetitività, esplosioni e implosioni, spettacolo e pensiero, eroi e traditori, ordine e caos, istinto e razionalità, travagli interiori contrapposti alla totale mancanza di alcun scrupolo (a tal riguardo, Gary Oldman regala uno squarcio di ineguagliabile incidenza).
Magniloquente e polifunzionale, tassativo e voluminoso.
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