Regia di Dev Patel vedi scheda film
Insospettabile regista di film d’azione oltre che protagonista dello stesso, Dev Patel, attore venuto alla ribalta come protagonista di The Millionaire e da allora abbonato ai ruoli di indiano in film inglesi e americani, esordisce dietro la macchina da presa con una pellicola spudoratamente ambiziosa, sinceramente esagerata, forse addirittura compiaciuta ma soprattutto a cavallo tra due mondi, quello del cinema di Bollywood, successivamente a un decennio in cui il cinema d’azione indiano è cresciuto sia per tecnica che per personalità, vedi il recente successo anche nei mercati americani di RRR, affermandosi come una versione barocca e più grossolana dell’action americano e che rappresenta per l’inglese Patel anche un ritorno alle sue origini, e quello più classico hollywoodiano con il quale è cresciuto.
Ma Monkey Man è soprattutto cinema hollywoodiano travestito da action/dramma indiano, un’incursione allegramente anarchica, molto “post John Wick”, che è anche l’omaggio al genere ad opera di un fan (Patel) che ne inseguiva la realizzazione da dieci anni, e la cui mitologia si estende, oltre a un certo franchise con Keanu Reeves, dal suo amore di bambino per Bruce Lee al cinema d’azione indonesiano (The Raid – Redenzione) e coreano, dall’epica indiana di Bollywood alla mitologia cinese, ispirato dalla figura di Sun Wukong già alla base di personaggi come il Goku di Dragon Ball e Monkey D. Luffy di One Piece.
Ma è anche l’opera personale di un autore, figlio di genitori induisti di origini indiane emigrati dal Kenya a Londra, che dietro alla sua superficie pulp, fatto di di combattimento corpo a corpo misti e adrenalinici scontri d’armi da fuoco, nasconde un sottotesto (anarchico?) sullo stato politico e sociale dell’india di oggi.
Film d’azione di cui è regista, protagonista ma anche sceneggiatore, insieme a Paul Angunawela & John Collee, Monkey Man ha avuto una gestazione piuttosto travagliata, prima per le difficoltà legate al covid, che ha costretto la produzione a girare in location alternative, poi i fondi a rischio e al cercare quindi di risparmiare soldi su qualsiasi cosa, costringendo praticamente ogni membro dello staff a improvvisarsi attore o comparsa, a seguire diversi incidenti sul set, che hanno coinvolto anche lo stesso regista/protagonista infortunatosi alla mano, per finire poi con il dietro front di Netflix che doveva distribuire la pellicola in streaming e che si è invece tirato indietro all’ultimo perché ha giudicato il film troppo controverso per il “patriotico” pubblico indiano a cui era destinato.
Arriva in suo soccorso Jordan Peele che, innamoratosi del progetto, contribuisce finanziariamente a finire le riprese, suggerendo modifiche alla colona sonora e ne aiuta la distribuzione al cinema grazie agli ottimi rapporti tra la sua Monkeypaw Productions (un caso che a collegarli ci sia sempre una scimmia?) e la Universal Pictures.
A coadiuvare il debuttante regista in questa impresa il direttore della fotografia Sharone Meir, il coreografo francese Brahim Chab e il coordinatore degli stunt Udeh Nans, anche (probabilmente) controfigura di Patel mentre del cast fanno parte Sobhita Dhulipala, Sikandar Kher, Vipin Sharma, Sharlto Copley, Adithi Kalkunte e Makarand Deshpande.
Ambizioso anche oltre le proprie effettive capacità ma comunque generoso e pieno di entusiasmo, la storia di Monkey Man è quella classicissima di un film di vendetta ma abbastanza scombinata da renderla (almeno) meno prevedibile.
Un film di caos con tanta (troppa?) personalità, molta critica sociale e diversi punti di riflessione ma rimane, prevalentemente, un film di “puro” caos.
La forza maggiore del film è infatti nel riuscire a creare un’atmosfera caotica e prevaricatoria, in modo tale da definire plausibili, quando non assolutamente necessarie, le azioni del protagonista, ritratto però non come un super uomo (alla John Wick) ma come qualcuno che va oltre le proprie potenzialità perché guidato da qualcosa dentro di sé, ed è piuttosto grossolano nelle emozioni, sempre estremamente basiche e caratteristica, questa, tipica di molto cinema indiano, oltre a una specificità culturale che va però oltre alla solita esotizzazione, cercando piuttosto di inserire nella storia una propria identità e quindi di non essere semplicemente un film d’azione ambientato in India ma piuttosto dimostrare di essere in contatto con quelle specificità (anche cinematografiche) e con quel retaggio sociale e culturale.
Obiettivo ampiamente raggiunto, forse addirittura con zelo eccessivo.
VOTO: 7
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