Regia di Alejandro Jodorowsky vedi scheda film
Esperienza sensoriale unica.
Nella baraonda orgiastica che caratterizza La montagna sacra non è facile trovare il motivo unificante dell'intero film. Colori innaturali, situazioni grottesche e personaggi grotteschi, ambientazioni surreali si succedono senza pace non concedendo tregua allo spettatore. E da qui si deve partire, da questa inquietudine insita nella stessa messa in scena del film, dall'avvicendarsi isterico delle sue sequenze: il lavoro di Jodorowsky si basa integralmente sul superamento. Prima parte del film: è un attacco spietato del regista a tanti dei fondamenti della nostra civiltà malata (del tempo, ma profeticamente, anche di oggi). Il cileno mette all'indice la Chiesa, le sue ritualità vacue, l'inefficacia dei suoi messaggi: mentre si ve(n)dono in ogni dove statuette di Gesù Cristo, tutt'intorno avvengono esecuzioni di massa nell'indifferenza generale, o peggio ancora, sotto l'occhio curioso dei turisti. Mostra le atrocità di uno Stato totalitario e fantasma, che uccide, uccide, e ancora uccide, conduce guerre per divertimento, inietta il germe della propaganda persino nei bambini, dimentica i suoi ultimi. Guarda con sarcasmo al pansessualismo, alla pedofilia, all'urbanizzazione selvaggia e tante altre cose ancora e in coda a tutto questo ci dice: non è niente, tu devi cercare una verità che trascenda tutte le assurdità del mondo. E comincia perciò a introdurci in un sensuale profluvio di figure esoteriche e misteriose, delle quali più ci è ignoto il significato e più ci attraggono. Più cerchiamo di intravedere una qualche ratio nel suo spartito cinematografico, più Jodorowsky ci invita a farci eroticamente travolgere dalle sue immagini, a superare gli schemi ortodossi di fruizione di un'opera. La seconda parte del film (ovvero la ricerca di nove impenetrabili saggi che dovrebbero vivere su una montagna per l'appunto sacra) è un superamento della prima, nella sostanza e nella forma. Il fascino naturalistico e solitario del monte innevato trascende tutta quella violenza impartita con naturalezza con la quale eravamo stati investiti nella prima ora abbondante. Ma proprio quando fremiamo di un turgido desiderio di conoscenza della famosa verità, quella per la quale, noi insieme ai protagonisti, abbiamo abbandonato il nostro mondo, il nostro io esteriore, il nostro denaro, le più radicate convinzioni del nostro essere, proprio in quel momento l'ultimo sberleffo di Jodorowsky ci percuote come uno schiaffo e ci richiama alla realtà. L'atto cinematografico del regista cileno si risolve in un nichilismo a metà: egli pare sminuire tutte le brutture del mondo e relegarle al ruolo di incidenti di percorso nell'eterno scorrere; ma nega anche una trascendenza esterna all'uomo. Rimane quindi solo l'Io più intimo, quello vero e solo, che in armonia con il Tutto, ripulito delle malattie passeggere che lo piagano, può conquistarsi la salvezza e l'immortalità.
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