Regia di Guy Ritchie vedi scheda film
Il secondo film di Guy Ritchie (sarebbe il terzo, ma quello d’esordio non se l’è filato nessuno) si sviluppa su due diversi piani narrativi: due storie che si intrecciano tra gli USA e Londra, che girano intorno a un furto di diamanti e ad un’organizzazione di incontri clandestini “a mani nude”. Le due vicende si incontrano in un casinò, guarda caso anche questo clandestino, dove le vicende esploderanno con le relative conseguenze. Della trama non importa sostanzialmente niente a nessuno. In un film un po’ alla Sodebergh, un po’ alla Fincher, Guy Ritchie, il cui passato da autore di videoclip emerge tutto, mette in scena uno strano mix da cui viene fuori qualcosa che sembra ritrito, nonostante sia originalissimo. Sarà che forse il marito di Madonna non si inventa niente di nuovo, ma mischia cliché cinematografici non esattamente di primo pelo; lo stile narrativo di Ritchie, sicuramente unico nel suo genere, costituito da un linguaggio triviale (fatto di intercalari poco nobili ad ogni frase), una regia schizoide fatta di accelerazioni, cambi repentini di prospettiva, inquadrature in “split screen” a mo’ di videoclip (per l’appunto), e, sempre come in un video musicale, una fondamentale incidenza della colonna sonora.
Nel complesso il film è corale (con Pitt, Statham, Serbedzija e Del Toro una spanna sopra gli altri) e decisamente misogino: l’unica donna a comparire sullo schermo con un ruolo in qualche modo significativo, la mamma dello zingaro Mickey (Pitt), fa una brutta fine quasi immediatamente. Alla fine c’è pure un happy end, ma lo spettatore si è perso già da un bel po’ intorno ad una felice e quantomai liberatoria considerazione: “Ecco allora qual è la differenza tra un regista ed un videoclipparo prestato alla settima arte…!”.
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