Regia di Sarah Polley vedi scheda film
Vincitrice del premio Oscar 2023 alla miglior Sceneggiatura non originale, questa bella pellicola è stata un po’ “eclissata” dal successo di “Everything, everywhere, all at once”, ma bisognerebbe darle le meritate attenzioni per il pudore, la sensibilità e l’intelligenza nel suo trattamento di temi duri e attuali come la violenza sulle donne.
«Vogliamo che i nostri figli siano al sicuro.
Vogliamo essere salde nella nostra fede.
E soprattutto vogliamo pensare…».
Cita un antico proverbio che “il silenzio è d'oro, la parola d'argento”, come a significare che il silenzio ha un valore maggiore delle parole e che, spesso, astenersi dal parlare vale più che intervenire. Eppure, in alcuni casi, è la parola in quanto tale a valere più del silenzio, a diventare più giusta e necessaria del continuare a restare in silenzio; è la possibilità, la volontà, il dovere di parlare che assume importanza ed espressione di qualcosa di utile rimasto troppo a lungo e ingiustamente inespresso, occultato, nascosto.
Il diritto alla parola, soprattutto a quella parola che da voce a qualcosa di prezioso che proviene da un’interiorità offesa, maltrattata e repressa, oppure che è conseguenza di un’esistenza che ha costretto l’individuo ad un forzato e doloroso silenzio, è il diritto che le otto protagoniste di questo film, otto donne, finalmente arrivano ad affermare per far valere la propria soffocata dignità di essere umani, di persone, prima ancora di essere donne capaci di autodeterminarsi.
E’ un’affermazione che arriva faticosa e dopo tanto tempo all’interno di una colonia fondata su un sistema patriarcale che a lungo ha negato il diritto e la possibilità di far sviluppare ogni espressione o presa di coscienza di natura femminile in nome di un’egemonia esclusivamente maschile.
E’ un’affermazione che mette in questione questo patriarcato, e che prova a riportare le singole e differenti voci femminili all’interno di un quadro condiviso al solo fine di far acquisire un senso di collettività più giusto, rispettoso e rispettato.
LA FUNZIONE FONDAMENTALE DELLA PAROLA
Dalla sinossi ufficiale: un gruppo di donne di una colonia religiosa scopre un segreto scioccante: per anni gli uomini della comunità le hanno drogate e poi violentate. Venute a conoscenza della verità, le donne discutono della loro drammatica condizione e dovranno decidere se restare e combattere o andare via.
La sceneggiatrice e regista Sarah Polley, accogliendo l’idea di Frances McDormand (anche produttrice della pellicola nella quale si ritaglia una piccola parte), ci porta all’interno di una comunità ultra-religiosa di mennoniti del nord America [1] e, come eloquentemente recita il titolo, si focalizza soltanto sul dialogo incisivo, pungente e crudo di otto donne non disposte più a tollerare, mute ed inerme, ai soprusi degli uomini, bensì intenzionate ad agire e reagire a queste disumane ingiustizie (l’ultima in ordine di tempo, l’abuso sessuale di una bambina di quattro anni). Il luogo di riunione dove si radunano per decidere cosa fare delle loro vite, è un fienile.
L’opera si struttura efficacemente nel contrasto tra una zona interna e una zona esterna: al luogo ristretto e protetto del fienile, allegoria dello spazio interiore, della comunicata intimità delle otto donne, si oppone a sua volta l’ambiente esterno e vasto della campagna che le circonda, anch’esso rimando alla brutale quotidianità e alla dura realtà da cui difendersi. Il fienile diventa così crocevia di un passato che non si riesce mai a gettare alle spalle e di un futuro ancora incerto e indistinto.
In questo spazio ontologicamente femminile, bisogni, pensieri, sentimenti e desideri vengono espressi, verbalizzati e argomentati mediante il confronto dialettico. Quando mancano gli uomini è qui che le donne provano, per la prima volta, a determinare il loro destino. Ognuna ha la propria idea di libertà: tra loro c’è chi vorrebbe perdonare e rassegnarsi alle violenze che si subiscono perché è così che la propria Fede raccomanda di comportarsi; c’è chi vorrebbe restare e lottare per provare a cambiare l’ordine costituito; c’è chi media tra le varie posizioni; e c’è chi infine invita ad andar via, a fuggire tutte insieme verso nuovi modelli di vita. Idee differenti, ma tutte accomunate dalla necessità spronante di prendere una decisione, di autorizzarsi a farlo, di scegliere per cambiare e sperare di darsi una possibilità di uscita, di salvezza, e di vita. Il potere liberatorio del dialogo non soltanto permette alle otto protagoniste una condivisa comunione di intenti, ma diventa anche e soprattutto la prima azione di ribellione di queste donne nei confronti della loro comunità, il primo passo compiuto sulla tortuosa strada che porta ad intrecciare la dimensione utopica all’interno del fienile con la dimensione reale che ne è al di fuori (le logiche patriarcali della colonia, e per estensione le brutture e i soprusi dell’attuale società americana).
I dialoghi si caricano di intenti ben precisi (elaborare il dolore, il trauma e scegliere liberamente a quale futuro ambire) e le parole si caricano di un potere causativo imprescindibile (a tal proposito, sul ruolo determinante della parola, rimando anche a questo mio post sul film "Lincoln" diretto da Spielberg): non servono soltanto a rievocare shock, rancori e odio verso una condizione umanamente insostenibile, ma anche e soprattutto a rivendicare un ruolo, un diritto, al pari di una necessità o di un desiderio.
Le parole ridanno forza, dignità e valore alle protagoniste di questa vicenda.
«Andarsene e scappare sono due cose diverse», affermerà una di loro. Basta questo per capire quanto la parola sia fondamentale, in ogni sua sfumatura.
Da questa angolazione di bruciante umanità, la regia non mostra mai la controparte maschile. Però ce la fa sentire vibrare in ogni momento nelle pieghe dell’anima delle donne protagoniste, nei loro laceranti traumi fisici e psichici, nella loro emotività distrutta ed esausta. Non è un caso che l’unico uomo mostrato nella pellicola sia un tipo buono ed onesto; un insegnante lontano da quella figura di uomo irrispettoso, brutale, violento e predatore sessuale che il movimento americano MeToo sta denunciando sempre più negli ultimi anni. E con la denuncia ritorna forte anche il ruolo della parola, l’unica capace di dar valore alla giustizia e alla dignità femminile quando questa è calpestata, quando questa si batte per tornare ad essere vista come soggetto libero di pensare in modo indipendente e non piuttosto come mero oggetto maschile.
Infatti è proprio una delle protagoniste a chiedere all’insegnante maschio: «Come ti sentiresti se la tua opinione non contasse mai?».
Al di là di ciò che può sembrare, è in realtà un cinema crudo, acuto, ambizioso questo “Women talking” perché tende di indagare, anche mediante il tratto lirico e minuzioso della regia, temi come la violenza, il riscatto femminile, il diritto di esprimersi, la Fede.
TANTE VOCI…UNA SOLA VOCE.
Basata sul romanzo "Donne che parlano" firmato nel 2018 dalla scrittrice canadese Miriam Toews – a sua volta ispirato ad una storia vera avvenuta nel 2011 in una colonia Manitoba in Bolivia [2] – la pellicola in questione è il quarto lungometraggio scritto e diretto dall'attrice, sceneggiatrice e regista canadese Sarah Polley , già autrice del documentario “Stories We Tell” (2012) oltre che dei film a soggetto “Take This Waltz” (2011) e “Away from Her - Lontano da lei” (2006).
L’accurato lavoro della Polley però non si è limitato alla sola scrittura e alla direzione delle attrici, ma è stato abilmente rivolto anche a tanti altri aspetti tecnici-artistici del film.
Oltre all’ottima sceneggiatura, vero cuore pulsante della pellicola, è proprio tutto l'aspetto formale che meglio impreziosisce e completa la poetica della talentuosa regista, sensibile nel raccontare storie in modo quasi impressionista, senza mai rinunciare a chiarezza e sincerità.
Le sapienti inquadrature, i colori desaturati e le musiche tensive sono di pregevole fattura e tutte suadenti, donano un’atmosfera cupa e sospesa al film (il direttore della fotografia è Luc Montpellier), e le attrici (nel cast corale figurano, fra le tante, Rooney Mara, Claire Foy, Jessie Buckley, Judith Ivey, Frances McDormand e Sheila McCarthy) tutte bravissime ad interpretare il disegno dei loro riconoscibili personaggi, in sé ben caratterizzati e ricchi di dettagli e sfaccettature, nonché utili a ricoprire la svariata gamma di emozioni che può provare una donna vittima di maltrattamenti.
Inoltre, di quest’opera, apprezzabili sono anche i costumi, tutti realizzati tramite vere stoffe mennonite, nonché la colonna sonora di Hildur Guðnadóttir (la stessa compositrice delle musiche di “Joker” e “Tár”) funzionale a trasfigurare le immagini in un intenso e vibrante senso di tensione e di speranza.
C’è una grande sensibilità anche nel montaggio di Christopher Donaldson e Roslyn Kalloo.
Sono queste le qualità principali, i pregi maggiori, che, almeno in parte, riescono a compensare i limiti e le imperfezioni di un film importante, ben realizzato e riuscito, ma a sua volta non privo di alcuni difetti.
Tra questi ultimi si possono constatare ed annotare ridondanze, lungaggini, insistite sottolineature, pause molto estese, dialoghi lunghi che sfiorano l’eccessiva verbosità, alcune scene enfatiche e artificiose, nonché una messinscena rigidamente austera e teatrale.
Sull’impostazione scenica teatrale però si può ragionare anche diversamente. Se analizzata a fondo, questa si può rivelare una funzione filmica ambivalente.
Se infatti è vero che da una parte può risultare un limite, dall’altra però può essere vista come un ulteriore doveroso protagonista, un necessario spazio fisico e al tempo stesso metafisico, che, rimandando inevitabilmente alle simbologie della tragedia greca, fa si che trasfiguri un presunto punto di debolezza in un punto di forza a livello drammaturgico ed espressivo.
Quest’ambivalenza infatti non priva l’opera dell’efficacia della sua forza polemica, anzi, ne amplifica la portata. Resta intatta e vibrante la dura accusa che il film indirizza alle distorsioni più volgari e violente del patriarcato, al triviale e abusato potere del patriarcato che, con la complicità dell’uso distorto della religione, ha favorito e celato ripetuti soprusi ai danni delle donne presenti in comunità.
E resta integro ed intenso anche l’impatto emozionale che scaturisce dalla vicenda narrata.
Una vicenda toccante e riflessiva, che, ben al di là di retoriche e modalità di approccio differenti, non può non richiamare alla mente anche la nostra attualità e il terribile, amaro destino che accomuna molte donne che vivono in nazioni governate da regimi dittatoriali e confessionali. E non solo.
Un dramma infinito che non può non rimandare anche alle lotte intraprese dal movimento Me Too nato pochi anni fa per dar voce alle donne vittime di aggressione sessuale.
In questa direzione la sceneggiatura appare solida e convinta nella denuncia sociale che appoggia e porta avanti (tra l’altro con equilibrio e sobria moderazione), ma anche molto onesta per come sa evidenziare che non tutti gli uomini sono degli stupratori, non tutti sono da condannare: a titolo esemplificativo è sufficiente ricordare l’affermazione «not all men» riportata da una delle protagoniste; oppure la figura di August Epp, uomo comprensivo e sensibile, interpretato da Ben Whishaw (tra l’altro, nel romanzo, tutto è raccontato dal punto di vista di August, mentre nella pellicola questo avviene dal punto di vista di Autje, interpretata da Kate Hallett).
Insieme alle parole ben selezionate che non spiegano e non giudicano mai, bensì raccontano e rivelano; insieme agli espressivi primi piani delle attrici e alle pertinenti riprese su dettagli e oggetti significativi; ci sono anche altri aspetti eloquenti e fondamentali che rendono ulteriormente interessante e coinvolgente l’intera opera.
Molti di questi elementi infatti si trovano e sono inseriti fuori scena. Una caratteristica stilistica anti-spettacolare che evita il facile sensazionalismo e che, al contempo, è anche espressione descrittiva.
Fuori scena rimangono paradossalmente anche gli uomini, i carnefici.
Non possiamo scrutare i volti dei colpevoli, mentre delle loro azioni si vedono le conseguenze, ma mai le cause. Tutto ciò è stato dettato dal solo fine di farci specchiare a lungo nell’anima delle vittime per meglio cogliere ed immaginare tutto il loro dolore e la portata delle atrocità, oltre che per mostrare in modo efficace le varie risposte allo stesso trauma subito da costoro.
A tal proposito non c'è mai uno sguardo commiserante nei confronti delle figure femminili, non c’è patetismo/vittimismo; anzi, c'è un approccio empatico e combattivo, che suscita immedesimazione e sprona alla riflessione.
Altro punto di forza della essenziale ed articolata sceneggiatura è che il discorso trattato si argomenta su più piani, toccando anche livelli sociali, politici, filosofici, religiosi e morali (la scoperta di sé e l’autodeterminazione, il superamento del patriarcato, il potere, la corresponsabilità, ecc.), ampliando i punti di vista ed estendendo il focus dalle donne a tutte quelle persone vittime di guerre, violenze e ingiustizie in generale.
Per arrivare così a trasfigurare tutta l’opera in un vero e proprio elogio della dignità e dell’amore.
L’amore declinato nelle sue varie forme, autentico e intenso, come quello dei genitori verso i propri figli, quello indirizzato a Dio, ma soprattutto quello che si deve avere per se stessi.
Le difficili decisioni che devono intraprendere le donne di questo film comportano infatti scelte di vita essenziali per il loro futuro, oltre che un bagaglio di paure, dubbi, diritti, doveri, cambiamenti, dilemmi comportamentali/relazionali/etici, e altre legittime domande a cui non viene data risposta.
Nulla è mai certo, nulla è mai facile, qualsiasi scelta più o meno “giusta” venisse effettuata.
Resta la complessità di una condizione che arreca inquietudine qualsiasi cosa si vada a fare, e che, pur aprendosi ad un futuro salvifico, non può esimersi dal continuare a convivere col tormento di ricordi angoscianti. Ciò nonostante, è l’orizzonte di una svolta, di un cambiamento decisivo, di una nuova vita che deve prevalere, motivare e che alla fine muoverà queste donne verso soluzioni catartiche e malinconiche.
Ma soprattutto rivoluzionarie. Queste donne hanno sposato il (bi)sogno di rifondare un nuovo universo, perseguito lo scopo di dover diventare portatrici di qualcosa di inedito, di una coscienza risvegliata.
Che cosa avremmo fatto noi al posto di quelle donne? Avremmo tradito gli stilemi religiosi nei quali si aveva fede, combattendo l'orrore con tutta la forza necessaria? Ci saremmo rassegnati in ossequio allo stesso credo confessionale? Oppure avremmo abbandonato tutto, fuggendo dalla nostra casa senza più tornarci? Qualunque sia stato il percorso intrapreso o da intraprendere, il film lancia in ogni caso un messaggio forte e chiaro, un messaggio di rispetto generale, da avere per tutto e tutti, oltre che di desiderio di libertà, di coraggio e di speranza, che non scade mai nel banale.
Riesce a dar voce a coloro che non hanno voce e che vorrebbero urlare, e soprattutto farsi ascoltare e rispettare per il loro essere persone prima ancora che donne…
In conclusione, “Women talking” è un film d’importante denuncia sociale, di lodevole impegno civile, degno di visione perché portatore di un’urgenza espressiva di femminilità e umanità che si rivela molto significativa in un momento storico come quello attuale.
NOTE E APPROFONDIMENTI:
1: “Chiesa anabattista costituita da quasi un milione di persone sparse nel mondo, fondata su una sorta di pacifismo che, però, rende alquanto complicata la condizione delle donne, ghettizzandole e costringendole all'analfabetismo e alla procreazione. Essendo legati al colonialismo, molte di queste colonie si trovano sulla East Coast degli Stati Uniti d’America”.
“Sebbene molte comunità mennonite siano meno restrittive di quella rappresentata in questo film, l’attuale colonia su cui si basa la suddetta pellicola (anche se non viene mai rivelata la location, rimanderebbe alla comunità mennonita di Manitoba in Bolivia) è ultraconservatrice: a differenza di altri gruppi mennoniti non consentono l’elettricità, i telefoni o le automobili.
Alla pari delle protagoniste presentate nel film, anche le donne della colonia di Manitoba nella vita reale non possono imparare a leggere e scrivere”. (Fonte: Wikipedia)
2: “Il romanzo “Donne che parlano” si è ispirato alla vera vicenda di Manitoba, colonia mennonita in Bolivia dove, tra il 2005 e il 2009, le donne sono state ripetutamente narcotizzate con anestetici per animali e stuprate dai componenti della comunità.
Quando le ragazze e le donne più mature si svegliavano ammaccate e coperte di sangue, gli uomini della colonia liquidavano i loro rapporti come vaneggiamenti, interventi del Demonio, o punizioni divine per i loro presunti peccati. Nel 2011 gli uomini sono stati condannati dal tribunale boliviano, ma nel 2013 fu reso noto che le violenze e gli abusi continuavano a verificarsi. Le vittime accertate sono state centinaia e variavano da giovani ragazze a donne più mature, e persino bambine.
Il corpo abusato più giovane in assoluto è stato quello di una bambina di appena 3 anni, a cui hanno rotto l’imene con un dito.
Gli imputati vennero ritenuti colpevoli di ripetuti stupri multipli e condannati a 25 anni di reclusione ciascuno, mentre il veterinario che li riforniva di spray anestetizzante fu condannato a 12 anni di prigione”.
Per ulteriori approfondimenti, consiglio l’ottimo servizio online di Vice, che si può leggere integralmente cliccando su questo link: Gli stupri fantasma della Bolivia
CURIOSITA’:
1) Riguardo alla gradazione del colore adottata dal film, la regista Sarah Polley ha spiegato come ha usato vari livelli di saturazione per creare la sensazione di «un mondo che era sbiadito nel passato». Questo è il principale motivo per cui la pellicola sembra essere quasi in bianco e nero, ma non totalmente.
2) Durante le riprese, al cast è stato consigliato di non truccarsi o radersi fino al completamento.
3) Il film ha ricevuto vari riconoscimenti: 6 nomination ai Satellite Awards; 4 nomination agli Independent Spirit Movie Awards, 2 candidature ai Golden Globe: adattamento e musica; 6 candidature ai Critics’ Choice Movie Awards: film, regia, cast corale, attrice non protagonista Jessie Buckley, sceneggiatura non originale, colonna sonora a Hildur Guðnadóttir, vincendo per la miglior sceneggiatura non originale.
Inoltre, ha ottenuto una candidatura per il miglior cast cinematografico ai Screen Actors Guild Award (SAG Award), e ha vinto per la miglior sceneggiatura non originale ai WGA, Writers Guild of America Award.
Infine, ai premi Oscar, ha ricevuto 2 candidature: miglior film dell’anno e miglior adattamento, vincendo una sola statuetta dell’Oscar per la miglior sceneggiatura non originale assegnata a Sarah Polley.
VOTO (in decimi): 7.50
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