Cuore di tenebra
«Non faccio film usando soltanto immagini di nuvole o alberi; lavoro con esseri umani, perché mi interessa il modo in cui si comportano in gruppi culturali diversi. Se questo fa di me un antropologo, allora l'etichetta mi sta bene. Ma io non ragiono mai in termini etnografici (per esempio, recarsi su un qualche isola remota per studiarne i nativi). Il mio obiettivo è sempre quello di scoprire qualcosa sull'uomo in generale, e il cinema è il mio strumento. Per questo non considero
Cobra Verde un film storico, come non consideravo tale
Aguirre. (…) È un film sulle grandi fantasie e follie dello spirito umano, non sul colonialismo» (Werner Herzog)
Cobra Verde di Werner Herzog, tratto da un romanzo di Bruce Chatwin (
The Viceroy of Ouidah), è un'opera grandiosa e decadente, dannunziana. Probabilmente è il film che più esplicita, fra quelli di finzione di Herzog, uno dei temi nascosti del suo cinema, la fascinazione per la morte, per la fine di tutte le cose; ed è il film che più si compiace della sconfitta e della crudeltà del suo protagonista. Per questo la critica non lo ha mai amato:
Cobra Verde porta al parossismo quanto c'è di irrisolto e morboso nello sguardo del regista tedesco – e nel suo cinema, da sempre indeciso fra la stasi (la contemplazione estatica della verità, però prossima alla morte) e l'azione (malvagia, spesso inutile, eppure vitale, catartica). E questa indecisione è, fra le varie cose, profondamente metafisica, oltre che assolutamente dannunziana.
Un cantastorie cieco apre
Cobra Verde: il film sarà una ballata, un poema sulla solitudine. La prima sequenza è significativa: un paesaggio arido, ammalato. Poi un uomo, il viso contratto dal dolore: è di fronte alla tomba della madre. In sovrimpressione, il testo di una poesia. L'
incipit di
Cobra Verde è un incredibile pezzo di bravura. Prima uno zoom all'indietro, poi una lenta panoramica di 360° che svela lo spazio circostante: carcasse di animali, avvoltoi, ossa sparse ovunque; siccità, una terra polverosa, segnata dalla morte. “L'acqua, il sole e la terra stanno diventando neri”.
La promessa di un mondo nuovo e incontaminato non è stata mantenuta. Francisco Manoel da Silva, il contrabbandiere protagonista di
Cobra Verde, ne è consapevole. L'innocenza è andata perduta per sempre; la libertà non è altro che un sogno lontano all'orizzonte – probabilmente lo stesso orizzonte che l'uomo scruta, stanco e disperato, su una spiaggia in riva al mare. “La schiavitù è un elemento del cuore umano”.
Ma cosa desidera davvero Manoel da Silva? “Vorrei andare via da qui, verso un altro mondo”. Verso il ghiaccio e la neve. La promessa gli è stata fatta, all'inizio di
Cobra Verde, da un giovane locandiere menomato (“di notte sogno sempre di portare una catena di montagne sulla schiena”), di nome Euclides: “Quando cammini sulla neve i tuoi piedi non pesano niente!”. È proprio questo che desidera il bandito da Silva: leggerezza; libertà.
Herzog ci costringe, senza mediazioni, a simpatizzare con uno schiavista. E l'identificazione è tanto più sincera quanto più sconvolgente. Francisco Manoel da Silva è uno sconfitto; è un criminale; è schiavista e schiavo (di sé, dei suoi mandanti, dell'Africa); è un disperato sognatore.
Dunque
Cobra Verde è un'opera difficile da maneggiare, anche più di altri Herzog. Il film non ha una narrazione lineare, coerente: è disorganico, allucinato. Le immagini crude degli schiavi e dei loro rituali sono contrapposte ad altre estatiche di elementi naturali – il mare, il cielo, la natura. Si potrebbe parlare addirittura di estetismo, se non fosse che tutto è corroso, nel film: corroso dal sangue versato, corroso dal tempo che passa, corroso dalla morte che prima o poi arriverà. Perciò
Cobra Verde è un film profondamente decadente. Forse non è il miglior Herzog:
Aguirre aveva oggettivamente un'altra furia, un'altra intensità;
Nosferatu un'altra eleganza, un'altra compostezza. In
Cobra Verde la macchina da presa è bloccata, e spesso incornicia l'azione con gusto pittorico; mentre Kinski, nella parte del bandito, s'agita, sbraita, si sposta da una parte all'altra dell'inquadratura, senza pace. Bellezza e brutalità; estasi e perdizione; fiction e documentario.
Cobra Verde si muove continuamente fra questi estremi, vibrante, senza trovare mai una sosta.
La prima mezz'ora è sicuramente più tradizionale, e forse più debole (alcune immagini sembrano uscire addirittura da uno spaghetti western), nonostante passaggi di grandissima suggestione (tutte le sequenze con la musica sepolcrale dei Popol Vuh). Eppure
Cobra Verde è tutto tranne che un film accademico: al contrario è un lavoro estremo, ammalato della stessa malattia di
Aguirre. Infatti già nella seconda parte l'impronta herzoghiana si fa marcatissima: la narrazione si accartoccia su se stessa; le immagini prendono il sopravvento; il ritmo indiavolato è interrotto da improvvise (e folgoranti) pause contemplative. Eppure il sogno di Manoel da Silva (la neve, il ghiaccio) non viene mai visualizzato. È questa la scelta più importante di Herzog: non c'è più il tempo dell'estasi. Tutto è inutile; tutto sta morendo; la natura è indifferente.
Lo stile dunque, come sempre ipnotico, di grande forza visionaria, annuncia la fine. Herzog non concede vie d'uscita. La mdp è fissa, nel finale; la sconfitta, la caduta dell'eroe negativo, è inevitabile. Come in
Aguirre e
Fitzcarraldo, Herzog in
Cobra Verde fissa sullo schermo l'inutilità del gesto titanico e, contemporaneamente, la folle ambizione di uno schiavista che combatte se stesso e il mondo. Che l'impresa di Manoel da Silva non porti a nulla, infatti, lo spettatore lo intuisce subito: ma è proprio questo che interessa al regista tedesco – il fallimento, la caduta. E la penultima sequenza di
Cobra Verde non è altro che la messa in immagini – immagini potenti, devastanti – di una sconfitta annunciata.
Non deve sorprendere allora che il documentario (?)
Lektionen in Finsternis (1992) si apra con una fittizia citazione pascaliana, «il crollo delle galassie avverrà con la stessa, grandiosa bellezza della creazione».
Cobra Verde di Werner Herzog racconta la fine del mito, la sconfitta del titanismo: ed è un film di tormentata, grandiosa, 'perduta' bellezza.
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