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Il tempo dei cavalli ubriachi

Regia di Bahman Ghobadi vedi scheda film

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La recensione su Il tempo dei cavalli ubriachi

di Peppe Comune
8 stelle

Con la morte prematura dei genitori, cinque fratelli iraniani di etnia curda rimangono da soli in un mondo ostile, con l'amore vicendevole a tenerli uniti e la forza per tirare avanti a farli sentire subito adulti. La piccola Ameneh (Ameneh Ekhtiar-dini) bada a Kolsoum, l'ultima arrivata. Madi (Madi Ekhtiar-dini) è un quindicenne affetto da una malformazione ossea di natura congenita. Solo una costosissima operazione potrebbe restituirgli la speranza di una difficile guarigione. Ayoub (Ayoub Ahmadi) ha lasciato la scuola per dedicarsi al pesante e rischioso lavoro di mulattiere che già svolgeva suo padre. Bisogna mantenere la famiglia e c'è bisogno di molti soldi per l'operazione di Madi e così lui si accoda ai contrabbandieri che trasportano merce per le vette innevate oltre il confine con l'Irak, sfidando le insidie di territori in guerra perenne e la paura di pericolose imboscate. Rojin (Rojin Younessi), la sorella più grande, accetta un matrimonio di convenienza perchè la famiglia dello sposo ha promesso di prendersi cura della condizione di Madi.

 

 

"Il tempo dei cavalli ubriachi" (premiato a Cannes come miglior opera prima) di Bahman Ghodabi (iraniano di etnia curda) è la bellissima storia di un solidissimo amore filiale, quello che tiene uniti questi cinque fratelli sventurati che oppongono agli infausti eventi che gli sono capitati in sorte la fierezza tenera di cuori non ancora corrotti. É assai commovente il sentimento che li lega, la forza che hanno di guardare avanti, l'aiuto vicendevole che prestono al povero Madi, il fatto che questo fratello sfortunato non è lasciato mai solo al suo inevitabile destino ma è accompagnato passo passo lungo una strada che tutti vogliono percorrere insieme, senza che si perda mai la speranza di vederlo guarito e con un trasporto emotivo che sgorga una purezza di spirito davvero encomiabile. Tutto ruota attorno al povero Madi, ogni sforzo è alimentato dal desiderio di non vederlo soccombere alla crudeltà del suo male, ogni azione individuale è sempre tesa alla ricerca di un bene condiviso, mossa da un altruismo che è tanto il frutto di una solidità di valori di vecchia tradizione quanto derivato dalla concreta necessità di compattarsi familiarmente per meglio resistere alle intemperie di un mondo in continua fibrillazione. Si, perchè ci troviamo per l'esattezza in un piccolo villaggio iraniano di etnia curda, molto vicino al confine con l'Irak e molto lontano dagli occhi "sensibili" dell'azienda mondo, un territorio conteso da tutti (soprattutto da Iran, Irak e Turchia, ma anche dalla Siria e dall' Armenia) ma di proprietà di nessuno, dove i destini di un un intera nazione sono indirizzati dai giochi d'interesse della geopolitica mondiale e una tragica regola di vita è diventata quella di stare attenti a schivare le pallottole del "fuoco amico", dove i bambini sono costretti a crescere troppo in fretta e il possesso di un mulo vale il sacrificio dell'adolescenza (quante analogie di tipo sociale con "Ladri di biciclette" di Vittorio De Sica, a dimostrazione di quanto, in fondo, la storia degli uomini, pur muovendo da cause diverse e agendo in contesti assai dissimili, si ripete sempre uguale). Bahman Ghodabi è molto bravo nel trattare tutto questo in maniera trasversale, denunciando tragedie dimenticate mostrandoci il modo naturale con cui vengono affrontate, facendo scorgere la più generale condizione politica e sociale del Kurdistan (trattata al cinema nella stessa maniera nello splendido "Yol" di Yilmaz Guney, un turco di etnia curda) tratteggiando la condizione tipo di una famiglia particolare, concentrandosi sulla straordinaria tempra morale di questi "figli" di nessuno per orientare le coscienze "occidentalizzate" sull'ordinaria miopia della "grande storia". Lo fa senza far ricorso ad inutili ghirigori stilistici o speculando su un impropria spettacolarizzazione del dolore, ma con un asciuttezza di linguaggio e un'aderenza consapevole alla realtà fattuale che bastano a conferire a "Il tempo dei cavalli ubriachi" (il titolo trae origine dall'usanza di ubriacare i cavalli per farli resistere all'immane fatica che li attende sulle impervie ed innevate montagne) il carattere di un documento storico da conservare con cura. Alla maniera assai tipica di molto cinema iraniano (Ghobadi, come Jafar Panahi, è stato assistente di Abbas Kiarostami) che, nell'urgenza di raccontare la vita del proprio paese nei suoi diversi aspetti, ha prodotto molte gemme preziose. "Il tempo dei cavalli ubriachi" è una di queste.

 

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