Regia di Bahman Ghobadi vedi scheda film
Il realismo di Bahman Ghobadi è, al tempo stesso, crudo e incantevole, come il paesaggio montano che fa da sfondo a questa storia di miseria e contrabbando, ambientata al confine tra l’Iran e l’Iraq. Come Abbas Kiarostami, di cui è stato assistente, Ghobadi inizia il suo percorso cinematografico abbassando lo sguardo ad altezza di bambino, laddove la sofferenza si accumula senza che nessuno abbia la forza di spazzarla via. L’infanzia ritratta in questo film è colpita duramente dalla povertà, dall’ingiustizia, dalla fatica, dalla malattia e dalla morte, eppure conserva intatta, nei tratti del corpo e negli accenti dell’anima, quell’adorabile semplicità che, in questo caso, fa da trait d’union tra l’innocenza e la saggezza. Le piccole vite provate dal dolore risplendono mirabilmente di volontà ed amore, di cui danno un’espressione incredibilmente modesta e gentile. Questo film, che narra le vicissitudini di cinque orfani curdi, è, prima ancora che un’opera di denuncia sociale, un’esemplare testimonianza di coraggio ed altruismo: Aymeneh studia e bada alla sorellina Kolsoum, Ayoub lavora per portare a casa il pane, Rojine che, dopo la morte dei genitori, fa da madre ai fratelli, si concede in sposa in cambio dei soldi per poter curare Madi, affetto da una grave malformazione congenita. Il mondo, intorno a loro, gira e si rivolta, ma essi tengono duro, rimanendo tenacemente fedeli allo spirito di gruppo, al calore del focolare, alla consapevolezza di appartenere allo stesso sangue ed allo stesso destino. Le immagini di questo film, pregevolmente tinte di colore etnico e lirismo contadino, sono la fotografia di una fede che parte dall’attaccamento alla terra e prosegue nell’operosa solidarietà verso i propri simili, per diventare una sorta di religione universale, che attraversa, eroicamente, tutti i confini tracciati dalla guerra, dall’odio e dalle divisioni.
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