Regia di Sergio Corbucci vedi scheda film
Il Corbucci mesto e grave dei suoi western seminali sta cambiando pelle a poco a poco. Siamo nel West post-Trinità che un po’ di macello l’ha fatto, e Tomás Milian prende sempre più piede nel nostro cinema, e da lì a breve rincarerà il sodalizio con Corbucci, Bruno però!, dando vita nel 1976 al fenomeno e fenomenale archetipo trash italiano inimitabile che è Nico Giraldi (evitiamo adesso in questa sede tutta la vicenda Monnezza che ne avrebbe da dire). Il cubano de Roma aveva passato un decennio in compagnia di Sergio Corbucci e un’altro con il fratello Bruno. Di quel primo decennio fa parte questa “Banda J&S” che arriva dopo a western come “Il Grande Silenzio”, “Gli Specialisti” e a “Compañeros”. È il primo dei tre western dalla vena comico-brillante che chiuderanno la filmografia di genere del regista che passerà poi, tra Bud Spencer e Celentano, ad alcuni dei titoli migliori della nostra commedia italiana, o meglio a quel filone di genere impostato sui canoni della commedia, soprattutto quella di coppia. In questo primo episodio di un’ipotetica trilogia a posteriori è ancora il puro western a farla da padrone. Nonostante le figure decisamente sopra le righe di Tomás Milian e Susan George, lui più incline alla nascente commedia trash e lei più incline al mélo, l’intero film è modulato su situazioni disperate, mai davvero tragiche, ma sulla strada lesionista dell’autodistruzione. Non per nulla è un nemmeno troppo velato omaggio a Bonnie e Clyde, solo che catapultati nel vecchio West. Anche se spruzzato regolarmente qua e là di una vena brillante, soprattutto grazie alla presenza di un Tomás Milian che recita non doppiato quindi con la sua irresistibile parlata cubano-romanesca, la vicenda è sviluppata sulla tensione tutta anticonformista (ereditata da “Gli Specialisti”) che hanno i due banditi protagonisti sia nel rapportarsi tra loro due, sia con il segugio che dà loro la caccia, sia con la borghesia e il resto della società bene e non. Tra i due protagonisti c’è in ballo una guerra di gender epocale nello Spaghetti-Western. Innanzitutto, improvvisamente, senza il tempo materiale di rendersene conto, Susan George s’innamora follemente del bandito picaresco Jed Trigado, forse per sopperire al recentissimo lutto dello zio becchino. L’attrazione morbosa verso il bandito è iperbolizzata da tutte quelle volte in cui la ragazza decide di rompere con Jed per poi desiderarlo di nuovo e con immutata passione. Da parte sua, il pícaro Jed Trigado la considera come un cane da passeggio, se la porta dietro a tre passi da lui, non la fa montare a cavallo o mucca che sia, la maltratta, la pesta in atti di violenza fisica che sembrano sublimare quelli sessuali che tra i due non possono esistere perchè a Jed le vergini fanno schifo. Infatti, nel tentativo di stuprarla, s’accorge che è vergine e la molla disgustato. É probabile, voluto o no non lo so, che tutta l’isteria di Tomás Milian verso Susan George sia un trasporto sessuale, che in futuro cambia di segno e si fa romantico e ingentilito grazie appunto alla conoscenza dell’amore. Amanti maledetti sì, ma fino ad un certo punto. Già, perchè pur volendola lasciare ad una disturbante Laura Betti e al suo bordello, Jed decide di salvarla e portarsela con sé. Anche il finale, chiosato antiborghesemente dal “fanculo” di Milian in una splendida controluce sul fianco scosceso di un monte al tramonto, non prevede la morte truce dei due banditi sul modello dei veri Bonnie e Clyde, bensì l’ipotesi di un proseguo delle loro malefatte. Infatti non si respira aria di ordine ristabilito per fortuna.
Questo è infatti l’altro grande tema del film, che è alla base del loro rapporto con la legge e lo sceriffo Franciscus che vuole Jed morto. Lo interpreta l’attore Terry Savalas, a detta di molti in uno dei suoi ruoli europei più riusciti. Il cattivo è lui, che fa il suo dovere. I buoni sono due ladruncoli, due rubagalline innocenti. Eppure cambiarli di segno serve a dare un impulso anche sociale al film, per nulla improprio nelle pellicole di Corbucci. Il rapporto con Franciscus è un rapporto a senso unico: c’è solo odio. Non vediamo una complicità ambigua tra guardia e ladro alla Lupin e Zenigada per intenderci, ma una vera e propria sfida morale. Savalas interpreta lo zelo della legge che sostiene una Nazione intera, e vuole uccidere la pericolosità dell’uomo libero secondo natura, di cui Jed Trigado è allegoria. Un po’ Pat Garrett e Billy the Kid, quindi, ma senza, fortunatamente, il tragico finale che ci ha consegnato la Storia. Personaggio oscuro, fumettistico e allgorico a sua volta, il Franciscus di Savalas talloneggia i due banditi con la costanza di un serial killer. É implacabile. Pure da cieco continuerà nella sua logorante missione, che se all’inizio gli toglie la vista, sul finale gli toglierà pure la vita. Ecco, in queste pieghe conclusive possiamo leggere una sensibilità diversa, un mutamento del rapporto univoco di solo odio dei due rivali. Infatti il cieco Savalas ascoltando le parole strillate dal cuore di Susan George che vorrebbe cambiare il bandito che c’è in Tomás Milian, e considerando ormai la sua ennesima sconfitta, si sgancia una bomba a mano e la fa finita. Forse nella paura che restare vivo l’avrebbe obbligato a dare la caccia a due esseri liberi, cosa che lui non è. E questa stilettata di classe verso la legge e chi la perpetua, è la stessa che avvertiamo verso le classi sociali medioalte. Se in “Gli Specialisti” si bruciavano i soldi e si fumava marijuana, qui si rapinano i gioielli dei ricconi, ci si autopromuove banditi sanguinari invece che vegetare nel quieto vivere, e nelle serate di gala si spengono sigari nei cocktails e si rapiscono le mogli adultere dell’elegantone di turno, qui Eduardo Fajardo in amichevole partecipazione. Ciò che non cambia, tra un film e l’altro di Corbucci, è questo appassionante ed autoriale amore per i “diversi”, per gli ultimi e gli emarginati, quelli che la società bene liquida come essere inferiori, come operai e intellettuali, gli unici capaci di poter sovvertire i governi, le banche e la morale corrotta del bravo uomo di chiesa. Corbucci è forse, oddio adesso mi ammazzate!, è forse un po’ il Peckinpah italiano. Almeno per poetica. E chi vi scrive è un noto gran brutto figlio del vecchio Sam. Storie a parte, la filmografia western di Corbucci sembra davvero improntata intorno all’epico romanzare dei perdenti e dei marginali, oltre che a denunciare i mali dell’epoca. In “Django” era il razzismo ad essere preso di mira, elevando a dignità letteraria i macabri antieroi di un mondo funebre e marginale. In “Navajo Joe” è l’indiano a diventare bandiera della lotta alla razzismo, per denunciare la corruzione borghese e la cultura del sospetto verso i diversi, usando il motivo del genocidio degli indiani per ammonire contro ogni olocausto etnico. In “Il Mercenario” c’è di mezzo la rivoluzione messicana e la presa di coscienza dell’impegno politico. In “Gli Specialisti” sono messi al bando il capitalismo fanatico, la ricchezza e la sopraffazione sociale dei ricchi. I marginali sono e restano i grandi protagonisti del cinema corbucciano, e se non sono menomati fisicamente lo sono nell’animo o nel ruolo sociale, tare che impongono loro una vita pericolosa ai margini del consenso pubbico. Ma mai in una pellicola di Corbucci viene banalizzato un motivo, un tema. Mai una scena sembra fuori luogo, e anche se ravvivata dalla commedia riesce ugualmente a dare l’impatto emotivo duro e puro del grande western anticonformista all’italiana.
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