Regia di Alice Rohrwacher vedi scheda film
Uscito dal carcere, Arthur (O'Connor, forte delle lezioni di recitazione prese da una cernia) ritrova i suoi amici nella Tuscia degli anni Ottanta. Il ragazzo è un rabdomante che scova i vuoti, che per i suoi amici tombaroli si traducono in reperti archeologici che vengono trafugati dalle necropoli etrusche della zona e rivenduti a un certo Spartaco (Alba Rohrwacher, che - va ricordato - è pur sempre la nuora di Maurizio Costanzo e il nome non è un mio errore di battitura). Ma il vero vuoto che cerca di riempire Arthur è quello della perdita della sua amata, tanto tempo prima.
Al suo quarto film, Alice Rohrwacher dà fondo al suo spirito anarchico e liberissimo, svincolato da qualsiasi regola di scrittura, persino elementare nella nettezza con cui si riesce a stare in bilico sul filo dell'antinomia: mondo di sopra e mondo di sotto, presente e passato, paesaggio industriale e rurale, visibile e invisibile, uomo e natura. Lo fa attraverso un racconto picaresco dai consueti accenti fiabeschi (Corpo celeste, Le meraviglie, Lazzaro felice) intrisi di realismo magico, con riferimenti lapalissiani al cinema di Pasolini e, in misura minore, di Citti e di Olmi. Ma la sua corte dei miracoli dalla calata burina è messa al servizio di un cinema che sembra essere già diventato la maniera di sé stesso, con una preminenza debordante della forma sul contenuto. Già, ma di quale forma parliamo? Di quella semiamatoriale (a cominciare dal miscuglio di pellicole) dove la macchina da presa sembra usata senza criterio e il montaggio, per 131 minuti complessivi, costruito con il metodo delle strategie oblique? In ogni caso, un film che gira a vuoto, una noia mortale da mercatino delle pulci, dove a contare sono solo i dettagli, mentre l'insieme è tuttalpiù un pot-pourri assemblato alla bell'e meglio.
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