Regia di Yorgos Lanthimos vedi scheda film
Nella Londra della seconda metà dell'Ottocento, lo scienziato God (Dafoe), che porta sul viso i segni lasciatigli da un padre brutale che lo ha sfigurato, innesta nel corpo di una donna suicida (Stone) il cervello della bambina che questa portava in grembo. La donna comincia così a fare esperienza del mondo circostante, con un veicolo che è innanzitutto fatto di corpo e carne. Finisce così con l'allontanarsi dal suo creatore, andando al seguito di un cinico dongiovanni (Ruffalo) e poi prostituendosi.
Tratto dal romanzo di Alasdair Gray, il film di Lanthimos - Leone d'oro al festival di Venezia - colloca al centro del racconto una Frankenstein in versione femminile che, attraverso i suoi comportamenti, mette a soqquadro il perbenismo della società in cui vive, tenendosi costantemente a debita distanza da quella società delle buone maniere che per Norbert Elias costituiva il passaggio obbligato nel processo di civilizzazione. Ma è proprio la traiettoria attraverso la quale passa l'emancipazione di Bella Baxter - questo il nome della protagonista - a costituire l'elemento centrale e, al tempo stesso, nevralgico del film. Quello di questa antieroina punk sembra essere un coming of age votato a versare un tributo ai diktat dell'inclusione e delle ultime propaggini del femminismo, quando invece sembra riuscire a veicolare soltanto il gusto del regista greco nello spiazzare lo spettatore, per sottolineare, ancora una volta, la propria eccentricità posticcia. E infatti lo schema è quello, identico, di tutti i suoi film precedenti, in cui una scheggia impazzita si incunea nell'ingranaggio omeostatico (Dogtooth, The Lobster, Il sacrificio del cervo sacro), rompendone gli schemi. In assenza di contenuti realmente iconoclasti, Povere creature! deve così cercare le sue risorse da cinema d'essai in un virtuosismo fine a sé stesso e non di rado didascalico (basterebbe pensare al passaggio dal fish eye in bianco e nero della Bella Baxter ancora in fase di acquisizione del linguaggio ai campi lunghi e ai cromatismi degni di Wes Anderson della stessa a emancipazione avvenuta). Sicché si ha la netta impressione che Lanthimos si sia limitato a puntellare astutamente la sua opera tra citazioni felliniane, Mary Shelley, il primo Lynch e Il mago di Oz, senza mai riuscire ad andare oltre un'ambientazione impeccabile e un uso forsennato della computer grafica. Avessi saputo che il titolo del film era un avvertimento agli spettatori, avrei risparmiato due ore e venti del mio tempo.
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