Regia di Yorgos Lanthimos vedi scheda film
Il cinema di Yorgos Lanthimos ha ormai trovato la sua dimensione produttiva ideale in Inghilterra, dove il regista greco vive e lavora dai tempi di "The lobster", e stavolta Lanthimos si è arrischiato ad adattare un romanzo di Alasdair Gray da alcuni considerato impossibile da filmare, una sorta di "conte philosophique" sulla formazione della coscienza femminile che aggiorna elementi di genere che fanno pensare soprattutto al Frankenstein della Shelley.
Così facendo, sì e commercializzato? La domanda può apparire fin troppo banale; sicuramente ha abbandonato gli umori sulfurei e le provocazioni dadaiste di opere come "Kynodontas", che gli aprì la strada a livello internazionale, optando per un linguaggio semplificato ma ugualmente personale, in cui la ricchezza del budget gli permette di curare, con una maniacalità quasi kubrickiana, ogni elemento dell'immagine che qui torna ad assumere una valenza pittorica dichiarata, con delle "palettes" cromatiche spesso sgargianti soprattutto nella parte del viaggi di Bella in giro per l'Europa. Per quanto riguarda i contenuti, Lanthimos mischia racconto di formazione e racconto filosofico con elementi fantasy in una sintesi di sicuro fascino e presa sullo spettatore, che a tratti sembrerebbe un po' incerta, e che forse nella seconda parte cede parzialmente ai dettami di una visione un po' moralistica del ruolo della donna nella società. A mio parere un'ottima riuscita che giustifica in buona parte l'entusiasmo con cui è stato accolto a Venezia e altrove, "Poor things" è un film dalle invenzioni registiche spesso geniali, formalmente audace nel ricorso ad un grandangolo di matrice wellesiana, tematicamente interessante per quanto non aggiunga chissà che di nuovo ad un dibattito su libero arbitrio, autodeterminazione dei corpi e risveglio della coscienza che, in un'epoca in cui il cinema non può più ignorare le istanze neofemministe alla Me too, almeno non si riduce alla trattazione alquanto superficiale e modaiola che ne aveva dato "Barbie".
Lanthimos conferma il suo genio nel dirigere gli attori, in particolare con un'Emma Stone da applausi, che rende benissimo la fisicità scomposta di Bella e poi i suoi interrogativi morali e la sua sete di conoscenza, prenotando un probabile secondo Oscar, che non sarebbe sbagliato; fra gli altri una menzione per un Dafoe come sempre di alta scuola, per quanto abbia sinceramente un po' stufato la sua continua riproposizione di personaggi del genere, un Mark Ruffalo efficiente ed umorale nella parte del corteggiatore ricco, un Ramy Youssef molto dolce ed espressivo nel ruolo dell'aiutante dello scienziato pazzo e innamorato di Bella e un omaggio a mio parere gustoso ad una invecchiata Hanna Schygulla, che uno non si aspetterebbe in questo contesto. Constata l'eccellenza degli svariati apporti tecnici, che hanno fruttato numerose nomination, non resta che abbandonarsi al piacere della visione, consapevoli che Lanthimos opera un salutare sberleffo a molte convenzioni usurate, e pazienza se la sua cattiveria primordiale ha in parte ceduto di fronte al richiamo delle star e delle megaproduzioni. Voto 8/10
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