Regia di Andrew Dominik vedi scheda film
Non c’è pace (nemmeno) tra le stelle. Siamo abituati a vedere le star soggiornare su un piedistallo dorato, anche quando le loro sofferenze sono note, sulla bocca di tutti, come se il loro status privilegiato potesse in qualche modo occultare e pacificare tutto il resto, ammaccature del lato umano comprese. In realtà, siamo tutti composti di carne e sangue, di lacrime e sorrisi, di menti fragili e dei medesimi bisogni, di debolezze che travalicano qualsiasi condizione di facciata.
Tutti, non solo i cinefili, conoscono Marilyn Monroe, sanno come la sua parabola si sia conclusa anzitempo, così come quelli che sono stati i passaggi principali che l’hanno vista protagonista, tra flirt da copertina e un successo esorbitante, i suoi limiti da attrice e un fascino magnetico che catturava chiunque con una semplice movenza, gli amori che avrebbero potuto/dovuto cambiarne il destino e i traumi che le hanno impedito di essere serena, in – meritata - pace con se stessa.
Con Blonde, Andrew Dominik porta all’estremo ogni connotazione, scartavetrando il concetto tradizionale di biopic, che per consuetudine sottolineano le luci dell’idolatria limitandosi ad accennare le ombre disturbanti, enunciando un dispositivo che si spinge nei territori dell’immagine, nella sua inavvicinabile complessità.
Allevata senza padre, la piccola Norma Jeane si ritrova sola al mondo quando viene separata da sua madre, Gladys (Julianne Nicholson – I segreti di Osage County, Omicidio a Easttown), ricoverata in un ospedale psichiatrico.
Una volta cresciuta, sceglie Marilyn Monroe (Ana de Armas – No time to die, Cena con delitto – Knives out) come nome d’arte e muove i primi passi nel mondo del cinema.
Dopo qualche anno difficile, da Niagara in poi è improvvisamente baciata da un successo folgorante. Nel frattempo, tra un set e l’altro, si sposa con il celebre Joe DiMaggio (Bobby Cannavale – Vinyl, Mosse vincenti) e in seconda battuta con il drammaturgo Arthur Miller (Adrien Brody – Il pianista, King Kong), due relazioni tormentate che non le regalano la tanto auspicata felicità.
Anche la sua crescente celebrità, culminata con A qualcuno piace caldo, non fa altro che destabilizzarla ulteriormente, facendola desiderare da tutti senza mai consentirle di soddisfare le sue necessità, con vuoti che rimangono scoperti e lesioni sanguinanti.
Insomma, nulla sembra in grado di placare gli effetti dei molteplici traumi subiti e delle mancanze di cui è stata vittima, tanto più che si aggiunge la classica goccia che fa traboccare – una volta per tutte - il vaso.
Blonde – primo titolo del catalogo Netflix vietato ai minori di 17 anni - fa di tutto per demolire le prassi collaudate, quelle limitazioni intrinseche che suggeriscono/impongono di andare per gradi e con un ordine diligente. In pratica, è un prodigioso e implacabile insieme di contrapposizioni/conflitti/opposizioni che seguono/indicano/spalancano mosse dirimenti che contrappuntano la pellicola senza piegarsi alle mezze misure, abbandonando qualsiasi tipo di contrappeso, sia nella forma sia nel contenuto, iniziando dalla sorgente fino ad approdare alla foce, identificando un cospicuo pacchetto di aree ad elevata conflittualità.
Da un punto di vista estetico, Andrew Dominik non si smentisce (vedi soprattutto L’assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford), anzi rincara la dose. Per quanto sia tempo perso andare a ricercare le motivazioni che hanno dettato le scelte puntuali, Blonde usufruisce di continue variazioni, tra cambi di formato e ripetute transizioni dal bianco e nero ai colori.
Per quanto riguarda il contenuto, la vivisezione è officiata/fissata da un preponderante e devastante contrasto tra donna, personaggio e ruolo. La donna finisce in mille pezzi, il corpo e la psiche sono martoriati, il personaggio – sottoposto a un assedio mediatico martellante - contribuisce alla materializzazione di un incubo trasfigurato e stratificato, mentre il ruolo amplifica la discrasia tra soggetto e oggetto.
Tutte queste particolarità vanno a costituire un processo di macerazione, una visione distorta, una selva oscura di vasi comunicanti, dei gironi dell’inferno che picconano ogni sorta di sollievo momentaneo dettando una linea diretta verso il crollo definitivo, con crocevia che trapassano rapidamente ogni soglia, da desiderata a posseduta/spremuta e infine abbandonata.
Capriole radicali che sfiancano la aspettative, una terapia d’urto che risulta ancora più vivida grazie alla straordinaria ed epidermica predisposizione totale di Ana de Armas ad accettare e subire un autentico martirio, che descrive un’anima in pena, un’icona che divora la persona.
In estrema sintesi, Blonde è un film traboccante e compulsivo che respinge al mittente ogni forma di precauzionale deferenza verso la diva per eccellenza, anche con eccessi francamente difficili da sostenere/difendere (le immagini del feto e altri frammenti che vanno oltre l’accettabile provocazione). Non fa sconti e non ha alcuna intenzione di accontentare lo spettatore tipo - anche per questo, il suo confinamento su una piattaforma streaming che ragiona per algoritmi è un controsenso -, che disorienta e disarciona flagellandone le attese, tartassandolo analogamente a quanto succede sullo schermo.
Tra involucri scintillanti e ventri in frantumi, gravami insostenibili e sogni erotici, nodi irrisolti e straniamento sensoriale, false speranze e crudeli risvegli, colli di bottiglia e vuoti d’aria, affondi percussivi e angolazioni stridenti, inquietudini pronunciate e visionarietà succinte, riflettori urticanti e gravitazioni eccedenti, una vetrina da sogno e scantinati da incubo.
Sfidante/punitivo e impietoso/impetuoso.
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