Regia di Andrew Dominik vedi scheda film
Non un biopic, ma un horror psicologico sulla riproduzione mediatica delle immagini
Parola di Paul Schrader, uno che, quando si tratta di dipingere scenari da incubo, è sempre in prima linea. In effetti è molto difficile non concordare con le sue parole: Blonde è un grande film ma che solo incidentalmente ha come protagonista Marilyn Monroe, una delle più grandi (se non in assoluto la più grande) diva cinematografica del XX secolo.
Andrew Dominik, dopo aver decostruito western (L’assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford), gangster movie (Cogan - Killing Them Softly) ed essersi dedicato ad alcuni documentari, torna, dopo dieci anni, al lungometraggio di finzione adattando il romanzo Blonde della scrittrice statunitense Joyce Carol Oates, labirintico lost highway di lynchiana memoria nella vita interiore di Norma Jean Mortensen Baker, interpretata da una stratosferica Ana de Armas, alla migliore interpretazione della sua ancora giovane carriera.
Coloro che si approccino a questo film, prodotto, tra gli altri, da Brad Pitt (che aveva già collaborato in precedenza con Dominik) ma distribuito universalmente da Netflix dopo una limitatissima finestra cinematografica nei soli Stati Uniti per consentire alla pellicola di concorrere per gli Oscar (cui rischia di restare escluso, trattandosi di un film molto duro, crudo e nettamente sconsigliato ai minori di anni 18, senza contare la forte connotazione astratto-teorica che rischia di renderlo poco appetibile alle masse, come già ampiamente riscontrabile nel (non)-dibattito sui social media, dove è stato sdegnatamente rigettato in larga parte) in seguito alla presentazione in concorso alla 79° edizione della Mostra del Cinema di Venezia, rischiano di rimanere delusi se si aspettino un film-verità, un film-inchiesta, o anche solo banalmente un film facilmente collocabile in quel femminismo standard da “me too”.
Blonde è il miglior film femminista che potremmo mai sperare di ammirare su uno schermo (ed è un vero peccato che milioni di persone lo fruiranno, Dio solo sa come, su schermi molto piccoli; la fruizione del cinema è essa stessa cinema?) proprio in virtù della sua natura di horror psicologico sulla riproduzione delle immagini
In Il cinema secondo Hitchcock di François Truffaut, il leggendario regista britannico affronta il tema della sessualità sullo schermo attuando un confronto tra Grace Kelly, Brigitte Bardot e, appunto, Marilyn Monroe: Quando affronto le questioni di sesso sullo schermo non dimentico che, anche qui, la suspense comanda tutto. Se il sesso è troppo evidente, non c'è più suspense. Ecco perché scelgo delle attrici bionde e sofisticate: bisogna cercare delle donne di mondo per questi film, delle vere signore che si scatenano solo nell'intimità della camera da letto. La povera Marilyn Monroe aveva il sesso stampato in su ogni angolo del viso, come Brigitte Bardot. Con loro non si possono fare dei bei film perché non può esserci sorpresa, manca la sorpresa del sesso. Il mio lavoro con Grace Kelly invece si è fatto sempre più audace, con parti sempre più interessanti da Il Delitto Perfetto a Caccia al Ladro
Pensare a Marilyn Monroe è esattamente la stessa cosa che pensare al sesso. Non c’è altro. Indipendentemente da qualsiasi ruolo possa interpretare, da qualsiasi contesto in cui si possa trovare, Marilyn Monroe sarà sempre associata al sesso.
Andrew Dominik comprende benissimo questa distorsione oggettificante e la riconduce alla natura di società dello spettacolo in cui ormai tutti da decenni viviamo. L’essere umano è tale non in quanto homo sapiens ma in quanto homo videns. Ciò che vediamo e che si imprime sulla nostra retina coincide con la verità, coincide con la conoscenza. E non c’è nessun’altra verità al di fuori di quello che vediamo, anche se solo superficialmente. Per questo motivo, imparare a manipolare l’immagine è uno strumento di potere. E chi detiene il primato assoluto sulla capacità di manipolare l’immagine?
Hollywood, La Mecca del Cinema
Lo stesso luogo che ha prodotto il cinema più grande e più bello di tutti i tempi regalando all’umanità opere d’arte immortali che continueranno ad essere amate, analizzate e studiate nell’eternità è lo stesso luogo che ha preso una povera ragazzina di nome Norma Jean Mortensen Baker e l’ha trasformata, per esigenza tanto artistiche quanto commerciali, in Marilyn Monroe
Marilyn Monroe non esiste, è una creazione di Hollywood, è proprietà intellettuale della 20th Century Fox, la cui natura fittizia di immagine di cui disporre a piacimento è sancita con un terribile atto di violenza sessuale da parte di Mr. Z, quel Darryl F. Zanuck (David Warshofsky) che, nel violare illegalmente e immoralmente l’intimità di un’aspirante attrice, ne sancisce il possesso produttivo.
How did you get your start? chiede Joe Di Maggio, Norma Jean prende tempo In what? tanto è ancora lancinante il dolore del ricordo. In movies, in acting precisa l’ex campione del baseball. E allora Norma I don’t know. I guess I was discovered
Tutto il film di Dominik ruota attorno a quel I don’t know. Di Norma Jean non sappiamo davvero nulla e il film non ci fornisce indizi rivelatori o chiarificatori. Non a caso il film procede per strappi, per ellissi, per isterici cambi di formato (1:1, 1,37:1, 1,85:1 e 2,39:1, tutti svirgolati senza equilibri), di fotografia (B/N, colore, bi-cromia). Vi è in Blonde un’astrutturazione estetica così pervicacemente inseguita che non può non folgorare nel suo far rima con l’io di Norma Jean continuamente sottoposto a disfacimento. Si potrebbe persino giungere ad affermare che quello di Dominik (e del direttore della fotografia, Chayse Irvin, già collaboratore di Spike Lee in BlacKkKlansman) non sia un film, ma una serie di fotografie messe in movimento. Quella che, in casi normali, suonerebbe come una critica (risuonano ancora nella nostra mente di cinefili le critiche di John Carpenter verso gli shooters del cinema contemporaneo) è, a ben vedere, un preciso atto di merito del regista, non solo nel riferirsi al caos emotivo ed identitario di Norma Jean, ma anche nell’intessere un brillante discorso metatestuale sul rapporto tra cinema e fotografia
In Blonde si parla di cinema, ma anche di cinema fotografato. La celeberrima gonna svolazzante di Quando la moglie è in vacanza, le prime pagine delle riviste di gossip, le locandine dei film, il faro di scena, le macchine fotografiche che i giornalisti impugnano come moderni cavalieri crociati: tutto è fotografia.
Nell’eseguire questa operazione, Dominik attua una scelta intelligente: non riprodurre mai la ‘vera’ Marilyn. Non c’è un singolo frame in cui possiamo riconoscere la ‘vera’ Norma Jean. È sempre e solo Ana de Armas. Il trionfo più sublime di questa scelta è il cortocircuito logico-storico in cui vediamo Jack Lemmon travestito in A qualcuno piace caldo parlare con Ana de Armas
Cos’è vero? Cos’è falso? Cos’è l’identità? Cosa significa essere se stessi? Ma, soprattutto, è possibile ricercare il vero in una società in cui l’immagine la fa da padrona, come quella della Hollywood degli anni d’oro e, a maggior ragione, in quella odierna in cui tutti abbiamo in tasca una potente videocamera, che può tranquillamente riprodurre ogni cosa e il suo contrario – e per giunta farle coesistere?
Blonde è un horror psicologico sulla ricerca. Ricerca di un padre mai conosciuto che forse non è mai stato quello che si pensava fosse, ricerca di una madre (ottimamente interpretata da Julianne Nicholson) malata e castrante che abiura la propria genitorialità in nome di una storia d’amore forse mai stata davvero sincera (It’s because of you! You’re the reason he went away! He didn’t want you!) a tal punto da disconoscere la propria figlia (Where’s my daughter? They said my daughter was coming. I don’t know you. Who are you?), ricerca di un soddisfacimento fisico in un ménage a trois destinato ad essere interrotto dall’opportunismo lavorativo (cioè mediatico), ricerca di un amore impossibile continuamente ostacolato da uno sguardo maschile geloso della possessività dell’immagine, ricerca di un lavoro autenticamente soddisfacente (Jane Russell prende 20 più volte di lei, pur essendo lei la bionda di Gli uomini preferiscono le bionde), ricerca di una genitorialità costantemente soppressa (volontariamente? involontariamente?)
Ma, se la vita si rivela un labirinto di specchi, cioè di immagini distorte anche disturbanti, come si fa a ricercare qualcosa? L’incessante riproduzione delle immagini annichilisce tanto la volontà quanto la volontarietà degli atti. La dimensione perturbante del film (che, come ogni horror che si rispetti, lascia allo spettatore una forte sensazione di inquietudine che richiede un bel po’ per essere placata) è data dalla sensazione di vivere in una sorta di perenne eterogenesi dei fini: le proprie azioni volontarie comportano continuamente conseguenze indesiderate involontarie.
Dominik è spietato: l’immagine batte la volontà, il personaggio annichilisce la persona, l’icona sconfigge la determinazione di sé. Il libero arbitrio non esiste, siamo tutti immagini, continuamente ricattatori e ricattati.
Se, in un altro biopic sui generis uscito nel 2022, Elvis di Baz Luhrmann, è il colonnello Parker (Tom Hanks) a detenere di fatto volontà e coscienza della star della musica pop (non a caso, coeva di Marilyn Monroe), in Blonde il vero perverso burattinaio non è un singolo individuo bensì l’intera cultura fallocratica che ha dominato il mondo (tanto occidentale quanto orientale) e continua, ancora oggi, tristemente a farlo. In tal senso, il film rivela la propria felice natura di film femminista nell’accezione migliore del termine, come da tempo se ne auspicava qualcuno. Il vero killer che ha portato Norma Jean alla morte ad appena 36 anni (rendendola, per beffa finale, eterna icona di bellezza femminile, privandola della amara ma, forse, benedetta vecchiaia) è un determinato modo di pensare il rapporto tra i sessi: Norma Jean poteva anche essere colta e discorrere di letteratura, ma ciò che contava davvero è che sapesse muovere il fondoschiena. Persino un fine intellettuale come Arthur Miller (ben interpretato da Adrien Brody) rimane stupito dalla cultura letteraria della donna, tant’è che arriva a stuprarla (intellettivamente, si intende) domandosi se fosse stato qualcuno a dotarla di un tale sapere, come se non potesse essere stato un afflato personale della donna. Se fosse stato un attore e non un’attrice, Miller avrebbe fatto una tale insinuazione? Insomma, vi è chi violenta carnalmente e chi violenta mentalmente: ad accomunare persone così diverse come Mr.Z e Miller vi è, appunto, il vero bersaglio del film, quella cultura maschilista che impedisce all’Hitchcock di turno di poter creare della suspense su un corpo attoriale come Marilyn Monroe. Il cinema è analisi dell’inconscio collettivo delle masse, pertanto il parere di queste ultime non può mai essere trascurato. D’altronde, vedere un film cos’è se non un impulso voyeuristico? E se l’impulso voyeuristico delle masse è innestato su codici maschilisti, come può questo non influenzare direttamente la macchina-cinema?
In un film di fantasmi terrorizzanti, tuttavia, non tutto è perfettamente azzeccato. L’errore più grave, innanzitutto, è un certo abuso dell’astrutturazione estetica che porta a soluzioni formali quanto più differenziate possibili ma non sempre azzeccate (si pensi al body camera mount di Joe Di Maggio durante un litigio con Norma Jean o al primo piano insistito sul volto di Norma Jean intenta a praticare una fellatio al presidente Kennedy). Inoltre, non si può non registrare qua e là un certo grado di superflua spettacolarizzazione del dolore, che raggiunge l’acme nei momenti che raffigurano il dolore di Norma Jean per i vari aborti subiti. In particolare, risulta imperdonabile e degna della peggior campagna antiabortista la sequenza in cui il feto inizi a parlare con Norma Jean, chiedendo alla futura madre di non essere abortito come accaduto a quello precedente. Qualsivoglia tentativo di giustificare una simile messa in scena facendo riferimento ad un deliquio onirico della sempre più sconvolta e fragile protagonista non può andare a segno, dal momento che si tratti inequivocabilmente di una soluzione di regia e scrittura altamente stucchevole, sgradevole, vacuamente retorica e, soprattutto, tremendamente didascalica. Allo stesso modo, vien da chiedersi cosa abbia spinto Dominik a mostrare insistentemente le scene di aborto dal punto di vista dell’utero, quasi fosse – anche qui – l’autocompiacimento estetico a dominare la narrazione e non un reale senso drammaturgico. Si tratta di errori talmente tanto macroscopici in un film così intelligentemente centrato nel ragionare sullo sguardo (forse in maniera anche eccessivamente teorica, un dubbio in tal senso è lecito) che non possano in alcun modo essere perdonati.
Per concludere, un ultimo riferimento alle parole di Schrader citate in apertura: nel momento in cui la dose di libertà creativa abbia superato il livello di guardia (quasi nulla di ciò che vediamo in Blonde è davvero accaduto nella vita reale), non sarebbe stato più efficace, anche per la riuscita produttiva del film, lasciare completamente da parte il mito della Monroe? Il fatto che la protagonista sia Marilyn Monroe e non una qualsiasi altra attrice (anche fittizia) che abbia vissuto i medesimi ambienti, tempi e situazioni aggiunge qualcosa in più al testo filmico? Se abbiamo accettato il cortocircuito metacinematografico di una Ana de Armas che interpreta Norma che, in un cinema, guarda Ana de Armas che interpreta Marilyn, allora potevamo anche accettare il paradosso di un’attrice dalle vicissitudini molto simili a quelle di Norma ma che, nei fatti, non era Norma. In un film che disquisisce dialetticamente sul rapporto vero-falso, per di più destinato ad essere fruito in modo non cinematografico in tempi diversi e schermi diversi (un audiovisivo di 167 minuti, visto in streaming sul divano di casa, mentre con un occhio si scrolla Instagram, interrompendosi per andare in bagno o per rispondere al citofono, e magari riprendendo la visione sullo smartphone il mattino dopo in metro… è ancora cinema? quanto di vero resta in una visione simile?), sarebbe stato un tocco di maggior pregio. Peccato
SITOGRAFIA
https://quinlan.it/2022/09/08/blonde/
https://specchioscuro.it/blonde-andrew-dominik/
https://specchioscuro.it/corpo-aborto-alcune-note-su-norma-marilyn/
roymenarini.it/blonde-e-il-mito-di-marilyn/
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