Regia di Andrew Dominik vedi scheda film
Non un biopic, ma un horror psicologico sulla riproduzione mediatica delle immagini
Blonde (2022): locandina
Parola di Paul Schrader, uno che, quando si tratta di dipingere scenari da incubo, è sempre in prima linea. In effetti è molto difficile non concordare con le sue parole: Blonde è un grande film ma che solo incidentalmente ha come protagonista Marilyn Monroe, una delle più grandi (se non in assoluto la più grande) diva cinematografica del XX secolo.
A qualcuno piace caldo (1959): Marilyn Monroe
Andrew Dominik, dopo aver decostruito western (L’assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford), gangster movie (Cogan - Killing Them Softly) ed essersi dedicato ad alcuni documentari, torna, dopo dieci anni, al lungometraggio di finzione adattando il romanzo Blonde della scrittrice statunitense Joyce Carol Oates, labirintico lost highway di lynchiana memoria nella vita interiore di Norma Jean Mortensen Baker, interpretata da una stratosferica Ana de Armas, alla migliore interpretazione della sua ancora giovane carriera.
Coloro che si approccino a questo film, prodotto, tra gli altri, da Brad Pitt (che aveva già collaborato in precedenza con Dominik) ma distribuito universalmente da Netflix dopo una limitatissima finestra cinematografica nei soli Stati Uniti per consentire alla pellicola di concorrere per gli Oscar (cui rischia di restare escluso, trattandosi di un film molto duro, crudo e nettamente sconsigliato ai minori di anni 18, senza contare la forte connotazione astratto-teorica che rischia di renderlo poco appetibile alle masse, come già ampiamente riscontrabile nel (non)-dibattito sui social media, dove è stato sdegnatamente rigettato in larga parte) in seguito alla presentazione in concorso alla 79° edizione della Mostra del Cinema di Venezia, rischiano di rimanere delusi se si aspettino un film-verità, un film-inchiesta, o anche solo banalmente un film facilmente collocabile in quel femminismo standard da “me too”.
Blonde è il miglior film femminista che potremmo mai sperare di ammirare su uno schermo (ed è un vero peccato che milioni di persone lo fruiranno, Dio solo sa come, su schermi molto piccoli; la fruizione del cinema è essa stessa cinema?) proprio in virtù della sua natura di horror psicologico sulla riproduzione delle immagini
La magnifica preda (1954): Marilyn Monroe
In Il cinema secondo Hitchcock di François Truffaut, il leggendario regista britannico affronta il tema della sessualità sullo schermo attuando un confronto tra Grace Kelly, Brigitte Bardot e, appunto, Marilyn Monroe: Quando affronto le questioni di sesso sullo schermo non dimentico che, anche qui, la suspense comanda tutto. Se il sesso è troppo evidente, non c'è più suspense. Ecco perché scelgo delle attrici bionde e sofisticate: bisogna cercare delle donne di mondo per questi film, delle vere signore che si scatenano solo nell'intimità della camera da letto. La povera Marilyn Monroe aveva il sesso stampato in su ogni angolo del viso, come Brigitte Bardot. Con loro non si possono fare dei bei film perché non può esserci sorpresa, manca la sorpresa del sesso. Il mio lavoro con Grace Kelly invece si è fatto sempre più audace, con parti sempre più interessanti da Il Delitto Perfetto a Caccia al Ladro
Pensare a Marilyn Monroe è esattamente la stessa cosa che pensare al sesso. Non c’è altro. Indipendentemente da qualsiasi ruolo possa interpretare, da qualsiasi contesto in cui si possa trovare, Marilyn Monroe sarà sempre associata al sesso.
La finestra sul cortile (1954): Grace Kelly
Gli spostati (1960): Marilyn Monroe
Andrew Dominik comprende benissimo questa distorsione oggettificante e la riconduce alla natura di società dello spettacolo in cui ormai tutti da decenni viviamo. L’essere umano è tale non in quanto homo sapiens ma in quanto homo videns. Ciò che vediamo e che si imprime sulla nostra retina coincide con la verità, coincide con la conoscenza. E non c’è nessun’altra verità al di fuori di quello che vediamo, anche se solo superficialmente. Per questo motivo, imparare a manipolare l’immagine è uno strumento di potere. E chi detiene il primato assoluto sulla capacità di manipolare l’immagine?
Hollywood, La Mecca del Cinema
Lo stesso luogo che ha prodotto il cinema più grande e più bello di tutti i tempi regalando all’umanità opere d’arte immortali che continueranno ad essere amate, analizzate e studiate nell’eternità è lo stesso luogo che ha preso una povera ragazzina di nome Norma Jean Mortensen Baker e l’ha trasformata, per esigenza tanto artistiche quanto commerciali, in Marilyn Monroe
Marilyn Monroe non esiste, è una creazione di Hollywood, è proprietà intellettuale della 20th Century Fox, la cui natura fittizia di immagine di cui disporre a piacimento è sancita con un terribile atto di violenza sessuale da parte di Mr. Z, quel Darryl F. Zanuck (David Warshofsky) che, nel violare illegalmente e immoralmente l’intimità di un’aspirante attrice, ne sancisce il possesso produttivo.
How did you get your start? chiede Joe Di Maggio, Norma Jean prende tempo In what? tanto è ancora lancinante il dolore del ricordo. In movies, in acting precisa l’ex campione del baseball. E allora Norma I don’t know. I guess I was discovered
Blonde (2022): Ana de Armas
Tutto il film di Dominik ruota attorno a quel I don’t know. Di Norma Jean non sappiamo davvero nulla e il film non ci fornisce indizi rivelatori o chiarificatori. Non a caso il film procede per strappi, per ellissi, per isterici cambi di formato (1:1, 1,37:1, 1,85:1 e 2,39:1, tutti svirgolati senza equilibri), di fotografia (B/N, colore, bi-cromia). Vi è in Blonde un’astrutturazione estetica così pervicacemente inseguita che non può non folgorare nel suo far rima con l’io di Norma Jean continuamente sottoposto a disfacimento. Si potrebbe persino giungere ad affermare che quello di Dominik (e del direttore della fotografia, Chayse Irvin, già collaboratore di Spike Lee in BlacKkKlansman) non sia un film, ma una serie di fotografie messe in movimento. Quella che, in casi normali, suonerebbe come una critica (risuonano ancora nella nostra mente di cinefili le critiche di John Carpenter verso gli shooters del cinema contemporaneo) è, a ben vedere, un preciso atto di merito del regista, non solo nel riferirsi al caos emotivo ed identitario di Norma Jean, ma anche nell’intessere un brillante discorso metatestuale sul rapporto tra cinema e fotografia
In Blonde si parla di cinema, ma anche di cinema fotografato. La celeberrima gonna svolazzante di Quando la moglie è in vacanza, le prime pagine delle riviste di gossip, le locandine dei film, il faro di scena, le macchine fotografiche che i giornalisti impugnano come moderni cavalieri crociati: tutto è fotografia.
Nell’eseguire questa operazione, Dominik attua una scelta intelligente: non riprodurre mai la ‘vera’ Marilyn. Non c’è un singolo frame in cui possiamo riconoscere la ‘vera’ Norma Jean. È sempre e solo Ana de Armas. Il trionfo più sublime di questa scelta è il cortocircuito logico-storico in cui vediamo Jack Lemmon travestito in A qualcuno piace caldo parlare con Ana de Armas
Cos’è vero? Cos’è falso? Cos’è l’identità? Cosa significa essere se stessi? Ma, soprattutto, è possibile ricercare il vero in una società in cui l’immagine la fa da padrona, come quella della Hollywood degli anni d’oro e, a maggior ragione, in quella odierna in cui tutti abbiamo in tasca una potente videocamera, che può tranquillamente riprodurre ogni cosa e il suo contrario – e per giunta farle coesistere?
Blonde (2022): Ana de Armas
Blonde è un horror psicologico sulla ricerca. Ricerca di un padre mai conosciuto che forse non è mai stato quello che si pensava fosse, ricerca di una madre (ottimamente interpretata da Julianne Nicholson) malata e castrante che abiura la propria genitorialità in nome di una storia d’amore forse mai stata davvero sincera (It’s because of you! You’re the reason he went away! He didn’t want you!) a tal punto da disconoscere la propria figlia (Where’s my daughter? They said my daughter was coming. I don’t know you. Who are you?), ricerca di un soddisfacimento fisico in un ménage a trois destinato ad essere interrotto dall’opportunismo lavorativo (cioè mediatico), ricerca di un amore impossibile continuamente ostacolato da uno sguardo maschile geloso della possessività dell’immagine, ricerca di un lavoro autenticamente soddisfacente (Jane Russell prende 20 più volte di lei, pur essendo lei la bionda di Gli uomini preferiscono le bionde), ricerca di una genitorialità costantemente soppressa (volontariamente? involontariamente?)
Ma, se la vita si rivela un labirinto di specchi, cioè di immagini distorte anche disturbanti, come si fa a ricercare qualcosa? L’incessante riproduzione delle immagini annichilisce tanto la volontà quanto la volontarietà degli atti. La dimensione perturbante del film (che, come ogni horror che si rispetti, lascia allo spettatore una forte sensazione di inquietudine che richiede un bel po’ per essere placata) è data dalla sensazione di vivere in una sorta di perenne eterogenesi dei fini: le proprie azioni volontarie comportano continuamente conseguenze indesiderate involontarie.
Dominik è spietato: l’immagine batte la volontà, il personaggio annichilisce la persona, l’icona sconfigge la determinazione di sé. Il libero arbitrio non esiste, siamo tutti immagini, continuamente ricattatori e ricattati.
Se, in un altro biopic sui generis uscito nel 2022, Elvis di Baz Luhrmann, è il colonnello Parker (Tom Hanks) a detenere di fatto volontà e coscienza della star della musica pop (non a caso, coeva di Marilyn Monroe), in Blonde il vero perverso burattinaio non è un singolo individuo bensì l’intera cultura fallocratica che ha dominato il mondo (tanto occidentale quanto orientale) e continua, ancora oggi, tristemente a farlo. In tal senso, il film rivela la propria felice natura di film femminista nell’accezione migliore del termine, come da tempo se ne auspicava qualcuno. Il vero killer che ha portato Norma Jean alla morte ad appena 36 anni (rendendola, per beffa finale, eterna icona di bellezza femminile, privandola della amara ma, forse, benedetta vecchiaia) è un determinato modo di pensare il rapporto tra i sessi: Norma Jean poteva anche essere colta e discorrere di letteratura, ma ciò che contava davvero è che sapesse muovere il fondoschiena. Persino un fine intellettuale come Arthur Miller (ben interpretato da Adrien Brody) rimane stupito dalla cultura letteraria della donna, tant’è che arriva a stuprarla (intellettivamente, si intende) domandosi se fosse stato qualcuno a dotarla di un tale sapere, come se non potesse essere stato un afflato personale della donna. Se fosse stato un attore e non un’attrice, Miller avrebbe fatto una tale insinuazione? Insomma, vi è chi violenta carnalmente e chi violenta mentalmente: ad accomunare persone così diverse come Mr.Z e Miller vi è, appunto, il vero bersaglio del film, quella cultura maschilista che impedisce all’Hitchcock di turno di poter creare della suspense su un corpo attoriale come Marilyn Monroe. Il cinema è analisi dell’inconscio collettivo delle masse, pertanto il parere di queste ultime non può mai essere trascurato. D’altronde, vedere un film cos’è se non un impulso voyeuristico? E se l’impulso voyeuristico delle masse è innestato su codici maschilisti, come può questo non influenzare direttamente la macchina-cinema?
Elvis (2022): Tom Hanks
In un film di fantasmi terrorizzanti, tuttavia, non tutto è perfettamente azzeccato. L’errore più grave, innanzitutto, è un certo abuso dell’astrutturazione estetica che porta a soluzioni formali quanto più differenziate possibili ma non sempre azzeccate (si pensi al body camera mount di Joe Di Maggio durante un litigio con Norma Jean o al primo piano insistito sul volto di Norma Jean intenta a praticare una fellatio al presidente Kennedy). Inoltre, non si può non registrare qua e là un certo grado di superflua spettacolarizzazione del dolore, che raggiunge l’acme nei momenti che raffigurano il dolore di Norma Jean per i vari aborti subiti. In particolare, risulta imperdonabile e degna della peggior campagna antiabortista la sequenza in cui il feto inizi a parlare con Norma Jean, chiedendo alla futura madre di non essere abortito come accaduto a quello precedente. Qualsivoglia tentativo di giustificare una simile messa in scena facendo riferimento ad un deliquio onirico della sempre più sconvolta e fragile protagonista non può andare a segno, dal momento che si tratti inequivocabilmente di una soluzione di regia e scrittura altamente stucchevole, sgradevole, vacuamente retorica e, soprattutto, tremendamente didascalica. Allo stesso modo, vien da chiedersi cosa abbia spinto Dominik a mostrare insistentemente le scene di aborto dal punto di vista dell’utero, quasi fosse – anche qui – l’autocompiacimento estetico a dominare la narrazione e non un reale senso drammaturgico. Si tratta di errori talmente tanto macroscopici in un film così intelligentemente centrato nel ragionare sullo sguardo (forse in maniera anche eccessivamente teorica, un dubbio in tal senso è lecito) che non possano in alcun modo essere perdonati.
Per concludere, un ultimo riferimento alle parole di Schrader citate in apertura: nel momento in cui la dose di libertà creativa abbia superato il livello di guardia (quasi nulla di ciò che vediamo in Blonde è davvero accaduto nella vita reale), non sarebbe stato più efficace, anche per la riuscita produttiva del film, lasciare completamente da parte il mito della Monroe? Il fatto che la protagonista sia Marilyn Monroe e non una qualsiasi altra attrice (anche fittizia) che abbia vissuto i medesimi ambienti, tempi e situazioni aggiunge qualcosa in più al testo filmico? Se abbiamo accettato il cortocircuito metacinematografico di una Ana de Armas che interpreta Norma che, in un cinema, guarda Ana de Armas che interpreta Marilyn, allora potevamo anche accettare il paradosso di un’attrice dalle vicissitudini molto simili a quelle di Norma ma che, nei fatti, non era Norma. In un film che disquisisce dialetticamente sul rapporto vero-falso, per di più destinato ad essere fruito in modo non cinematografico in tempi diversi e schermi diversi (un audiovisivo di 167 minuti, visto in streaming sul divano di casa, mentre con un occhio si scrolla Instagram, interrompendosi per andare in bagno o per rispondere al citofono, e magari riprendendo la visione sullo smartphone il mattino dopo in metro… è ancora cinema? quanto di vero resta in una visione simile?), sarebbe stato un tocco di maggior pregio. Peccato
Blonde (2022): Ana de Armas
Quando la moglie è in vacanza (1955): Marilyn Monroe, Tom Ewell
SITOGRAFIA
https://quinlan.it/2022/09/08/blonde/
https://specchioscuro.it/blonde-andrew-dominik/
https://specchioscuro.it/corpo-aborto-alcune-note-su-norma-marilyn/
roymenarini.it/blonde-e-il-mito-di-marilyn/
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Straordinaria analisi di un film che ha fatto molto discutere nei festival e in rete. Perle ai porci? In ogni caso quando mi capiterà di abbonarmi a Netflix anche per altri recuperari cinematografici e non, recupererò Blonde, anche perché la figura di Marilyn Monroe mi aveva sempre affascinato sin da ragazzino per via della sua “dipartita”. Uno di quei personaggi storici che ancora suscitano mistero e fascinazione al pari dei serial killer.
Ottima la citazione sul saggio-intervista di Truffaut su Hitchcock che avevo letto anch’io e calzante il post di Schrader su FB che hai citato.
Per ora di film con Marilyn Monroe ne ho visti pochi, ossia nei film di Billy Wilder. Recupererò e mi documenterò meglio sulla sua figura in futuro, anche se non sono mai stato un fan dello star system hollywoodiano.
Un caro saluto e complimenti ancora per questa stratosferica analisi. Attendo con pazienza il tuo prossimo lavoro “monolitico” ;D
Grazie mille, caro! E' un film molto duro e crudo, inevitabilmente destinato a dividere. Però è bello vedere dibattiti accesi intorno a un film che non sia di supereroi, una volta tanto! Alla fine non è neanche necessario conoscere bene la figura della Monroe, tanto di reale in questo film c'è talmente così poco che appare sin troppo evidente che sia un MacGuffin per parlare di tutt'altro! A presto carissimo e speriamo che il prossimo film a far molto discutere arrivi anche in sala...
Sì infatti credo che sarà uno dei primi film che andrò a recuperare su Netflix insieme a "Mank" e "Il potere del cane".
Il prossimo film che farà discutere e che uscirà in sala? Avatar 2.
Nel mentre grazie alla biblioteche recupererò altri film con la Monroe ;)
A presto carissimo!
Ho letto con estremo interesse questo tuo appassionato resoconto. La riflessione che hai ben enucleato sulle persone sopraffatte dalle immagini è ciò che mi ha fatto amare ancora di più questo film, a causa della sua terribile (e geniale) attualità. Come scrivi anche tu, oggigiorno è ognuno di noi ad essere imprigionato in un mondo di immagini che ci tolgono quella che è la nostra verità. Segno (agghiacciante) che l'industria hollywoodiana ha trionfato, diventando ideologia (fallocratica) dell'immagine nel suo complesso. La critica di Schrader sull'utilizzo dell'icona Marilyn è editorialmente fondata (un film di quella durata e così poco vendibile e amabile cozza apertamente con la presunta vendibilità dell'icona su cui si basa, quindi in effetti tanto valeva farlo su chiunque altra), ma non sono così d'accordo quando ne fa una questione anche semantica: il caso di Marilyn rimane un unicum assoluto proprio nel rapporto tra attrice e personaggio (dove appunto "personaggio" è sinonimo di "feticcio"): nessun'altra attrice o diva, nemmeno immaginaria, avrebbe potuto rimpiazzarla mantenendo un eguale peso semiologico. Inoltre non mi sento di essere così bastonatore su certe soluzioni di messa in scena che hai citato: l'idea dei feti parlanti, ad esempio, non credo avesse alcun obiettivo antiabortista ma solo orrorifico, nonché provocatorio (e ognuno, chiaramente, reagisce alla provocazione in un modo diverso). Grazie per questa tua analisi! :-)
Grazie a te per il graditissimo passaggio, caro Simone. Le tue critiche trovano terreno fertile ma resto convinto che la scena dei feti potesse essere tranquillamente risparmiata. Ammesso che l'intento fosse orrorifico, si poteva trovare una soluzione meno didascalica di così...
Secondo te, questo film ha speranze di dire la propria alla stagione dei premi?
A naso direi di no. Le uniche candidature che vedo più probabili per gli Oscar sono quelle ad Ana de Armas e, al limite, a Nick Cave e Warren Ellis per la colonna sonora. E comunque destinate a cadere nel vuoto. A bloccare il film nel cammino dei premi sono principalmente tre cose: è troppo crudo, troppo difficile da capire e troppo difficile da amare. Sommandole tutte e tre, ne esce un film per nulla trasversale. Eppure, proprio per l'icona Marilyn protagonista e per come viene trattata, è il film più chiacchierato nell'ultimo mese sui social, anche tra la gente comune. E la cosa fa notizia perché: 1) non è uscito al cinema; 2) proprio il fatto che sia uscito su una piattaforma lo ha reso più popolare di quanto la sala avrebbe potuto fare nel 2022.Da questo punto di vista, "Blonde" è il "Don't Look Up" del 2022. Tutte riflessioni che andranno sicuramente riaffrontate a ridosso degli Oscar (magari con un mio articolo affine a quello dell'anno scorso).
Il dramma è che è chiacchierato da gente che, per la maggior parte, dopo 40 minuti ha interrotto la visione. Troppo disturbante per lo spettatore medio Netflix. Ma, Oscar a parte, qualcos'altra cosa dici che non la porta a casa?
In effetti, non sarebbe male un tuo articolo sul tema 'Netflix che fa fare ai registi film estremamente personali per sdoganarsi presso un pubblico di cinefili che non hanno Netflix o che, se hanno Netflix, devono parlarne male qualsiasi cosa faccia, con l'aggravante di scontentare anche il suo pubblico generalista di riferimento'.
Tra l'altro, io spesso il pubblico generalista non lo capisco: l'anno scorso "Il potere del cane" venne abbastanza rigettato da gente che poi ha adorato "Drive my car" (ricordiamoci la battutina della presentatrice agli Oscar "ho iniziato a vedere quattro volte Il potere del cane"), quando entrambi i film, seppur in generi completamente diversi, hanno più di qualcosa in comune, soprattutto sul lavorare in sottrazione e nel rendere sfumati i sottotesti e i non detti. Sarà la moda social di dichiararsi amanti di tutto ciò che viene da Oriente?
Beh su questo non c'è dubbio, "Drive My Car" è un film che richiede pazienza allo spettatore odierno non meno de "Il potere del cane". Su Netflix e le sue strategie editoriali (spesso ridicole) bisognerebbe scrivere un libro e nemmeno quello basterebbe. Ma lo spunto per un articolo c'è sicuramente. ;-)
"Solo un grande errore" credo sia limitativo. Da donna, io direi proprio offensivo. Sì, un accanimento sul cadavere. Dominik offre la sua versione, maschilista e distorta: sono certa che, da essere umano complesso, Marylin avesse anche altro e più dentro di sé: non solo terrore, smarrimento, tristezza. Non ho letto il libro ma ho il presentimento che là gli spazi ampi permettano quello che neanche quasi 3 ore chiudono (e tagliano massicciamente dello scritto, e come potrebbe essere diversamente?): un quadro a tutto tondo ed una resa dei conti vera. Tra l'altro, vigliaccamente, il film non si assesta il colpo finale al sistema: la Oakes ha il coraggio di farlo e mettere un punto fermo: omicidio. Unico possibile finale. Dominik invece ...., ma, mi, forse, a dirla tutta, no.
Sono proprio arrabbiata. E per questo non posso che dare 2,5 stelle. Perchè il film è sul serio molto bello e non posso aggiungere nulla di più a quanto questa tua splendida recensione dica.
Capisco benissimo le tue critiche al film, trovano effettivamente terreno fertile proprio per una certe ambiguità di fondo dell'operazione che io stesso riconosco. Anche forse una certa programmaticità nell'affastellare situazioni sempre più disturbanti contribuisce a rendere l'operazione poco trasparente. Onestamente non lo so, alla fine l'unico giudice implacabile, come sempre, sarà il tempo. Comunque grazie per tuo questo graditissimo passaggio
Non è un caso che tu apra e chiuda questa ottima recensione con quello che per te è dubbio. Mentre per me certezza.
Un episodio: tra i luoghi turistici di Los Angeles ci sono, purtroppo, i cimiteri. Ebbene sì, e con disgusto devo ammettere che ci sono stata pure io. A discolpa, la California li ha resi Memorial Park sostanzialmente rendendoli "monumenti" a tutti gli effetti. L'Hollywood Forever Cemetery è uno spazio verde curato ed organizzato, dove riposano i grandi divi soprattutto dell'età d'oro (non entro in altri dettagli o liste). Sta su Santa Monica Boulevard quindi nel transito da ovest ad est LA, verso il mare, ci si passa proprio davanti. La sensazione è di pace e deferenza.
Marylin risposa al Pierce Brothers a Westwood (scelto da Di Maggio): un ettaro nascosto tra palazzi lussuosi. Minuscolo anche per gli standard europei. Riposa dietro una lapide, orribilmente decorata con 2 kisses. E' vero che il protestantesimo non ha un culto dei morti come il cattolicesimo (pertanto anche i fiori non sono così necessari) ma la solitudine della sepoltura (rispetto ad altre) è evidente. Fiotti di turisti si fanno le fotografie davanti: come un carosello. Le postano pure su Tripadvisor, probabilmente le mettono sullo stato di whatsapp. Viene solo da piangere, povera donna. Non perchè io sia migliore, ma forse solo perhcé io sono credente, a me venne solo in mente di fare la cosa più naturale che in un cimitero si fa. Il segno della croce ed un "Eterno riposo"
Sfondi una porta completamente aperta ma sulla mancanza di decenza e buon gusto da parte di tanta gente ci sarebbe da scrive un tomo poderoso... forse alla fine l'oggettificazione dell'icona di cui parla Dominik (in maniera forse non sempre calibrata ) ha un suo senso alla luce anche di quello che tristemente racconti. Il kitsch è dell'icona o del nostro sguardo verso essa, anche a decenni di distanza dalla sua dipartita? Dominik, forse, ha ragione ma non era necessario, come giustamente dici, accanirsi sul cadavere della Monroe...
quando vedo le tue rece e i tuoi approfondimenti mi vergogno davvero.....non ne sono capace e a volte provo invidia...le mie sono sempre ridotte al minimo e racchiudono tutto in modo breve...davvero bravo,anche in questo tuo ultimo lavoro.
Ma no caro Ezio, così mi metti in imbarazzo. Credimi, le mie recensioni non sono niente di che, sono quasi sempre meri "riarrangiamenti" di letture critiche che faccio su riviste, saggi, siti online (che trovi anche nella bibliografia/sitografia). Senza queste, non sarei in grado di scrivere più di 3 righe... Alla fine, l'appetito vien leggendo, ho letto moltissimi dei tuoi commenti e hai un invidiabile dono della sintesi che io disgraziatamente non ho e non ho mai avuto. Ti ringrazio davvero tanto per i generosissimi complimenti ma sappi che ho ancora tanto da imparare sul cinema e quelli come te rappresentano un modello da seguire in tal senso. Grazie davvero tanto
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