Regia di Andrew Dominik vedi scheda film
Di certo la lunghezza esasperante di Blonde, biopic sui generis della vita di Norma Jean Baker alias Marilyn Monroe, fa parte del progetto di scuotimento sensoriale che Dominik vuole adottare secondo dopo secondo, un bombardamento di idee visive e di stravolgimenti estetici che si fanno fatica ad immaginare prodotti da una sola mente, e sembrano rendere il film non un singolo organismo. Blonde, che va dall’infanzia alla morte dell’immortale icona di Hollywood, non vuole spingersi tanto oltre il senso di straniamento della stessa Norma Jean rispetto all’immagine che il mondo crea di lei, e su cui lei smette di avere controllo come con un Mr Hyde della cellulosa, dei poster e dei cartelloni pubblicitari. Allo stesso modo, rivedere l’icona Marilyn su tutte le immagini che conosciamo ma sostituita dal volto di Ana de Armas (di eccezionale bravura) reca allo spettatore un simile senso di straniamento, e questo basta: su questo scollamento di percezione e di personalità Dominik basa l’intera idea di Blonde, ripercorrendo per il resto linearmente la vita dell’attrice. Bianco/nero e colori, 16:9 e 4:3: coi suoi contrasti netti Dominik avverte che i confini fra persona e mito sono slabbrati ed è difficile per Norma in primis venirne a capo.
Le trovate di Dominik sono innumerevoli e trasformano il film in un fiume in piena: da una scena di sesso a tre (coi corpi diluiti come zucchero filato, e delle lenzuola che diventano le cascate di Niagara di Henry Hathaway) fino ai cambi repentini di scenografia (Norma che cammina in un teatro e si ritrova seduta su un aeroplano), Dominik vuole raccontare una storia facendo dimenticare di star raccontando una storia, simulando egregiamente un fluire ininterrotto di situazioni. Riesce, con perizia di scrittura ancor prima che di regia, a motivare cause ed effetto tra una scena e un’altra, ad evitare sollazzi gratuiti e anzi, a giustificare eventuali lungaggini richiamando al calvario infinito della protagonista, calvario che siamo portati a vivere in prima persona, in tutti i suoi vorticanti deliri. Nessuna denuncia precisa di un mondo all’infuori dei commenti generici sui “mostri della società dello spettacolo”, il dramma è commisurato a quello umano della protagonista, e si nutre solo del suo frustrato desiderio di maternità (tre aborti, due indotti uno spontaneo) e del suo frustrato desiderio di essere amata sinceramente (due matrimoni, un amore bipartito fra il figlio di Charlie Chaplin e quello di Edward G Robinson, violenze e umiliazioni di vario genere). Dominik sfida anche il sentire a tratti ingenuo di Norma, come di bambina mai cresciuta, che parla con se stessa, gioca e chiama Daddy qualsiasi partner sentimentale: Ana de Armas in questo è micidiale e si porta dietro un’espressività per nulla essenziale ma squisitamente eccessiva, degna del cinema muto.
Cos’è dunque che va storto in Blonde? Forse che questa marea di inventiva non lascia intravedere uno sguardo netto, parziale, circostanziato, come ci si aspetterebbe da un autore attivo da 20 anni, e che dedica ad ogni film anni interi di preparazione. Forse il fatto che la vorticosità del dramma di Marilyn trova corrispondenze solo concettuali nella regia, ma non nei fatti estetici (nessuna idea visiva si chiude e si amplifica oltre la suggestione immediata). Forse perché il senso di straniamento rispetto all’icona è terribilmente generalizzato, perdendo di una specificità altresì urgente - qualsiasi tentativo di sperimentazione scuote sensorialmente ma non sconvolge alcuna aspettativa. O forse, infine, perché alla fine il film necessita di un’inessenziale motivazione melodrammatica per “farla finita”, e abbassare il sipario. Simili pigrizie dentro un contenitore così splendidamente sgradevole e scomodo come Blonde lasciano un amaro in bocca poco accettabile, e ridiscutono la sincera baraonda di emozioni che il film ispira quando ci si ritorna col pensiero.
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