Quando la paura è dentro di noi sin dalla nascita e prende svariate forme con gli anni.
E dopo Nope di Peele e The Northman di Eggers anche il nostro Ari Arister è in careggiata col suo terzo film, BEAU HA PAURA con Joaquin Phoenix.
Beau, un uomo di mezz’età con i più alti complessi al mondo, deve andare a trovare sua madre della quale prova tanto amore quanto esserne timorato.
Nel farlo affronterà un viaggio man mano sempre più surreale, distorto e grottesco.
Stavolta è un film impegnativo dato che parla tanto di metafore, immagini, figure allegoriche, situazioni non proprio normali, ma significative e rimandi al classicismo greco come il complesso di Edipo o la tragedia di Medea. Anche un po’ di Dante nella struttura.
Eppure la narrazione ha una bella linea retta, fuorviata alla lunga solo poche volte per entrare nella testa del protagonista.
Qui Phoenix è fenomenale, espressivo sempre, anche quando sta’ immobile e in silenzio per lunghi istanti a non fare niente.
La regia è molto quadrata, si prende i suoi tempi, gioca di silenzi e rumori roboanti, di inquadrature in prima e terza persona e un montaggio col giusto ritmo con momenti di tensione pura. Le parti oniriche in animazione sono belle girate.
Le musiche sono in gran parte diegetiche e ben azzeccate.
Non è un horror o un film che fa’ paura, ma piuttosto è un dramma grottesco e surreale con sfumature ad alti picchi di terrore. Come se a furia di stare a vedere sempre un uomo che è pieno di paure ed insicurezze si finisce per provarle con lui.
Almeno una decina di scene rimarranno ceralaccate nella memoria.
Le tre ore possono sembrare spaventosamente lunghe, ma le tante cose narrate e la morbosa curiosità di sapere chi fossero i suoi genitori, se la sua condizione fisica-mentale sia veramente quella che è e a capire di più sul suo passato terranno incollati allo schermo. D’altronde parla di amore distorto e mancato, di sensi di colpa, paure che hanno tutti che prendono forma, di ricordi e sogni infranti, ma anche di morte in un certo senso e di castrazione mentale.
Sarà divisivo, dato che soprattutto nel finale lo spettatore avrà libera interpretazione, esattamente come voleva il regista. Un po’ come un Garland o Aronofsky.
Stavolta merita veramente una visione, se non tre.
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