Regia di Olivia Wilde vedi scheda film
Anni ’50, Alice e Jack Chambers sono una coppia perfetta: giovani, all’apice dell’amore, non hanno figli, lui è una figura di spicco nel posto dove lavora e lei si prende cura di una casa bellissima e ha delle amiche impeccabili, anche se mai quanto lei. Ma non è tutto oro quello che luccica e sotto questa apparente perfezione si nasconde il più subdolo degli inganni.
Il nuovo film di Olivia Wilde parte dal più classico sogno americano e richiama, sia nella scelta del periodo storico in cui si svolgono i fatti, sia per la frustrazione di cui sembra soffrire la protagonista, incastrata nel ruolo di “casalinga perfetta” che le sta evidentemente stretto, quel Revolutionary Road di Richard Yates (da cui l’omonimo film di Sam Mendes) che sembra in qualche modo aver viziato la sceneggiatura di Katie Silberman, per poi sfociare in un thriller dai confini frastagliati.
Intelligente fin dalla scelta del titolo che richiama il contesto familiare in cui si svolgono i fatti, dove non c’è assolutamente nulla di cui preoccuparsi, almeno in apparenza, salvo poi scoprire che la bella facciata della società impeccabile in cui vivono, nasconde tutti i meccanismi di una setta, il cui irritante leader Frank, interpretato in modo piuttosto convincente da Chris Pine, tiene le redini. Ma è davvero “solo” questo?
La sotto-trama della pellicola della Wilde ha del fantascientifico che, solo in parte, spiega le motivazioni che spingono Jack a vendersi l’anima pur di tenersi il lavoro e la posizione sociale raggiunta. Il film pecca infatti di una caratteristica rilevante: mentre la prima parte, che solo poi si scopre essere una conseguenza della trama che potremmo chiamare originaria, è lenta e ben spiegata, anche troppo approfondita, la seconda parte, che è quella poi che ci conduce al finale e che dovrebbe giustificare la prima parte, è svolta in modo frettolosa, tralasciando alcuni tra gli aspetti in realtà più affascinati dell’intero film.
La scelta della Wilde di concentrarsi principalmente sulla figura maschile e sul ruolo negativo che questi ha sia nei rapporti verso il genere femminile, sia attraverso il perpetrare atteggiamenti egoisti a più riprese e quasi in ogni sequenza in cui è presente un “maschio”, hanno portato la regista ad essere accusata di misandria e a perdere di vista il vero significato nascosto che la pellicola potrebbe racchiudere. Se a servizio del soggetto della sotto-trama fosse stata eseguita una sceneggiatura più consona, il risultato finale ci porrebbe di fronte ad un film sia bello visivamente, grazie alla fotografia dai colori pastello che Matthew Libatique (di cui Aronofsky si è servito a più riprese) opportunamente alterna a colori più cupi per distinguere le scene della realtà con quelle della finzione, che ben sviluppato.
Nota di merito a Florence Pugh, ben omologata nelle sensazioni emozionali della protagonista con la quale si crea da subito l’empatia necessaria; se con Midsommar aveva raggiunto l’apice della sua espressività, qui la riprende purtroppo solo in parte, penalizzata da una sceneggiatura che non le rende giustizia.
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