Regia di Olivia Wilde vedi scheda film
Osteggiato, vilipeso e discusso oltre misura tra una valanga (troppe?) di polemiche Don’t Worry, Darling é stato finalmente presentata fuori concorso alla Mostra del Cinema di Venezia e, quindi, dal 22 settembre anche al pubblico italiano.
Del secondo film della regista Olivia Wilde, dopo il debutto con La rivincita delle Sfigate (orripilante titolo italiano dell’originale Booksmart), si è detto tutto e il contrario di tutto in una cattiva (e a tratti insopportabile) attenzione mediatica molto più interessata al gossip dietro alle quinte del film che non della pellicola stessa e che va a depotenziare un progetto cinematografico anche interessante (per quanto imperfetto) pur di aggrapparsi ai pruriti convulsi di una convenienza esclusivamente scandalistica.
Scritto da Katie Silberman, già sceneggiatrice di Booksmart, su un testo preesistente di Carey & Shane Van Dyke, il film della Wilde è un thriller dispotico debitore di tantissimo cinema e serialità televisiva, un Truman Show virtuale alla Black Mirror passando per l’ambiguità di Scappa - Get Out e al simbolismo (o alla etimologia) di Matrix e che risponde, in modo piuttosto coerente, alle idee della regista ma anche a mostrarsi come manifesto di una rivendicazione femminista.
Quello di Olivia Wilde è infatti un film sul controllo dell’uomo sulla donna e sulla privazione della loro libertà fisica ma (soprattutto?) intellettuale.
Visivamente ricercato, con un’estetica raffinata e precisa nelle intenzioni registiche il film non mantiene però anche la stessa forza narrativa limitandosi a conservare un’ottima cura formale, una buona tensione e una colonna sonora d’effetto (ma pressante, specie all’inizio) ma è comunque la sua capacità di cogliere lo spirito dei tempi senza radicalizzarsi (troppo) in un manifesto ideologico che riesce a trasformare una pellicola di genere, di fantascienza dispotica, in un estratto (molto) teorico sociale attraverso una storia sulla mascolinità tossica che impone alla donna la propria (egoistica) visione dell’amore cercando, al contempo, di bloccarne lo sviluppo personale e professionale.
Il micro-cosmo (!) di Victory si rivela quindi un progetto sociale (!!) che promette un’utopia di felicità insana proprio per la sua irraggiungibilità, non a caso costruito su un’immagine stereotipata degli anni’50, era del boom economico e del positivismo a tutti i costi ma anche incubatrice di incubi e pregiudizi che sarebbero poi esplosi nel decennio successivo, oltre che effimero riflesso, seppur forzato, del nostro presente.
In questo gioco di specchi tra realtà illusoria e finzione forzata si riaffermano i codici del sottogenere distopico alla cui apparente canonicità si sovrappongono allucinazioni, glitch narrativi e proiezioni ipnagogiche che ne ostacolano il percorso, rese anche musicalmente attraverso suoni sincopati e/o discordanti.
Un universo fallocentrico (e paternalistico) sorretto dall’ideale anacronistico che impone l’uomo come esclusivo portatore di felicità della donna oltre che suo unico sostentamento economico e relazionale, privandogli anche dell’indipendenza (e della libertà) pur di soddisfare la propria meschina vanità.
Un bel calcio nelle parti bassi quella della regista nei confronti dei fallocrati rimasto ancora agli anni’50.
Che sia stato proprio questo a creare così tanta acredine nei suoi confronti da parte di certa stampa del settore? Chissà...
Ma l’aspetto più importante del film è l’aver scelto come protagonista Florence Pugh.
La giovane attrice britannica non solo dimostra grande carisma e fisicità ma ne diventa la vera forza trainante, caricandosi sulle spalle l’intera responsabilità della riuscita della pellicola.
Gli fa da contraltare un non certo indimenticabile Harry Styles ma anche un insipido Chris Pine in quanto sono proprio i personaggi femminili, non credo a caso, a dominare la scena.
A partire da quello interpretata dalla stessa regista Olivia Wilde, responsabile di un plot twist purtroppo andato un po’ sprecato in quanto potenzialmente interessante ma non sviluppato a dovere.
Tra gli altri interpreti Gemma Chan, Sydney Chandler, Kiki Layne, Douglas Smith.
Progetto sulla carta molto ambizioso (forse persino troppo) e non sempre all’altezza delle intenzioni nella sua realizzazione, pervaso com'è da un senso di déjà-vu e dalle tante (troppe?) ispirazioni, ma non per questo da ostracizzare (o addirittura da bocciare) a prescindere, infangato prima ancora della sua uscita da una reputazione pessima costruita (ad arte?) dai gossip e/o da recriminazioni, anche personali, sfruttate per demonizzare un’opera che probabilmente non lo meritava affatto.
"ogni uomo è responsabile di sua moglie"
VOTO: 7
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