Regia di Steven Spielberg vedi scheda film
Siamo fatti di ricordi custoditi nei cassetti dell’anima, di una realtà temporanea che richiede risposte immediate e di sogni da preservare. Di quello che è stato, ossia di un passato nel quale sono stati piantati dei paletti destinati ad accompagnarci per il resto della nostra vita, di quanto stiamo vivendo, del presente che costringe a fare i conti con necessità puntuali, apodittiche e sistematiche, e di quel che sarà, di un avvenire che deve ancora acquisire una forma compiuta e che in un buona parte compare già nel prontuario che delinea il bagaglio individuale.
Un connubio complesso, in perenne e costante mutazione, abitato e presidiato da fattori che rientrano sempre e comunque nello sconfinato patrimonio umano, quindi condivisi in ordine quanto mai sparso con un quantitativo indefinito di altri individui, che vanno a costituire quel quadro cromosomico che ci rende tutti simili eppure sostanzialmente differenti, dei pezzi unici votati alla strenua ricerca della felicità, di una piena realizzazione che sazi i desideri.
Con The Fabelmans, Steven Spielberg si aggiunge al sempre più esteso elenco di autori che hanno deciso di trasporre porzioni della loro vita in immagini (tra i più recenti, Belfast ed È stata la mano di Dio). Un banco di prova – lo diciamo subito senza la benché minima titubanza, superato di slancio, a pieni voti - covato da circa un ventennio, da quando sul set di Munich lo sceneggiatore Tony Kushner, suo storico collaboratore (West side story, Lincoln), ha incominciato a incalzarlo.
Ebbene, il regista di Cincinnati realizza una perla di straordinaria bellezza, un libro aperto abbastanza semplice e candido per attecchire anche su chi è solo di passaggio, eppure portatore di un considerevole quantitativo di argomentazioni e competenze, che gli permettono di non scivolare sul prosaico e vischioso terreno dell’autoreferenzialità.
A soli sei anni, Sammy Fabelman (Mateo Zoryan – Esordiente in un lungometraggio) scopre la magia del cinema grazie ai suoi genitori Burt (Paul Dano – Il petroliere, Being Flynn) e Mitzi (Michelle Williams – Blue Valentine, Manchester by the sea), uno stupefacente amore a prima vista, e nel suo piccolo comincia a riprendere utilizzando qualsiasi cosa gli capiti a tiro.
Da adolescente (Gabriel LaBelle – The predator, American gigolo) gira i suoi primi filmini, mentre deve affrontare le crisi di sua madre, la scoperta del ruolo effettivamente occupato da Bennie (Seth Rogen – 50 e 50, Cattivi vicini), uno stretto amico di famiglia, una situazione che diventa improvvisamente instabile e più traslochi, che infine lo portano a vivere in quel di Los Angeles.
Nonostante i tanti intoppi e ostacoli che si frappongono lungo il suo percorso di crescita, Sammy non ha alcuna intenzione di rinunciare a coltivare il sogno di farsi largo nel mondo del cinema.
Aprendo lo scrigno dei ricordi, Steven Spielberg ritrova lo smalto dei giorni migliori, uno stato di grazia che adopera per mettere sul piatto tematiche e riflessioni che agiscono con significativo profitto su più layer.
Nella sostanza, The Fabelmans allestisce/sciorina/cavalca la classica transizione da racconto di formazione, che in parte è strettamente personale, con tanto di tangibile commozione, dall’altra apre i varchi necessari per stabilire, abilitare e sviluppare binari privilegiati con i cinefili, andando anche in questo caso a creare aggiuntivi e svariati piani di lettura, tra messaggi scoperti, che anche i sassi riuscirebbero a captare e recepire nella loro pienezza, velati e (semi) nascosti.
Una modulazione prismatica che regala ripetuti apogei, un impasto che vanta una ricchezza di opportunità praticamente sconfinata che posiziona su un piedistallo la magia del (fare) cinema, il suo potere mistificatorio, l’arte di rendere immortale o sminuire il soggetto di turno, di accontentare o beffare chi osserva, di creare splendide illusioni, di trasformare e trasfigurare il materiale rappresentato a esclusivo piacimento del direttore d’orchestra.
Diventa quindi fondamentale e distintivo il come, che determina ogni esito qualunque sia il suo indirizzo, rispetto al cosa, una disposizione espletata direttamente in più modi, ad esempio nei montaggi dei singoli filmati nei quali la volontà di chi guida le danze determina in maniera inequivocabile la reazione dello spettatore.
Al di là di tutto ciò, che definisce proprietà salienti, la grandezza di Steven Spielberg è riscontrabile nell’incantesimo che promuove e plasma attraverso automatismi inappuntabili, contraddistinti da una prontezza di riflessi che consente di non arrecare il minimo disturbo a una ricezione perennemente istantanea e altrettanto duratura, con marcature ravvicinate che rendono vividi gli stati d’animo e i legami in evoluzione.
Infine, la flessibilità delle immagini, che offre una fisiologica immediatezza, trova un ulteriore appoggio nelle interpretazioni, sempre sul pezzo, aderenti a ogni specifico stadio. Se il piccolo Mateo Zoryan colpisce per gli occhi spalancati al cospetto di quel tesoro chiamato cinema, vedendo Gabriel LaBelle sembra proprio di ritrovarsi di fronte all’adolescente Steven Spielberg, mentre Michelle Williams è un punto luce fondamentale, un diffusore incontenibile di emozioni, e Paul Dano offre un’interpretazione di ragguardevole maturità (nel suo piccolo, lo stesso vale per Seth Rogen, misurato al massimo).
In conclusione, The Fabelmans è un film di sana e robusta costituzione, nonché una summa della poetica spielberghiana. Mette a nudo e a fuoco uno dei più grandi e influenti registi della Storia del cinema, ed è zuppo di considerazioni, curiosità e regali preziosi (tra gli altri, l’indimenticabile apparizione di David Lynch), che riaffiorano dalla memoria, da anfratti vicini e lontani, da una vocazione sviscerata partendo da una sorgente incontaminata, talmente limpida da scardinare ogni corazza.
Tra la nascita di una passione e gli avvenimenti – spesso ordinari, talvolta travolgenti – che contraddistinguono il rapporto tra genitori e figli, la perdita dell’innocenza e il ritrovamento di quel fanciullino che risiede negli adulti di qualunque età, unità e discordanze, intimità e manipolazioni, carezze e dissapori, intercapedini pregiate e addendi di comune acchito, attrazioni irresistibili e bullismo, responsabilità e apprensioni, lacrime e rapsodie, condivisione e intolleranze, una sensazione di meraviglia e un’innata applicazione delle dottrine che determinano il senso del mezzo cinematografico.
Colpo di fulmine.
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