Regia di Jordan Peele vedi scheda film
Il fanta-western di Jordan Peele, una sferzante critica alla società dell'immagine tra Spielberg e Moby Dick
Uno scimpanzé vestito di giallo si avvicina minaccioso alla macchina da presa, puntando dritto allo spettatore. Tra lo sguardo magnetico della bestia e il nostro, solo il confine sottile di una tovaglia: siamo nascosti sotto al tavolo insieme a un bambino riuscito a sottrarsi, per il momento, alla furia omicida dell’animale che nel corso di una sit-com televisiva, spaventato dallo scoppio di un palloncino, ha massacrato gli altri membri del cast. Alle spalle dell’animale, accanto al corpo esanime di un’attrice riverso sul set, una scarpetta celeste da donna rimane inspiegabilmente in bilico verticale sul pavimento. Tutto viene ovviamente ripreso dalle telecamere. Perché, in fondo, è solo una questione di sguardi.
C’è una nuvola che non si muove mai sul ranch hollywoodiano di OJ ed Em Haywood – fratello e sorella addestratori di cavalli da generazioni per l’industria cinematografica, nonché discendenti del dimenticato fantino nero protagonista dell’esperimento di Muybridge, che diede il via alla preistoria del cinema. C’è una nuvola che non si muove, un lutto incomprensibile da superare e la voglia di riscattare la propria storia magari dandola in pasto all’Oprah Winfrey Show, che tutto fagocita alimentando l’industria morbosa dell’intrattenimento e saziando gli sguardi voraci dei telespettatori. Dall’alto piovono oggetti contundenti che si ficcano negli occhi di chi alza la testa per osservare il cielo, tagliando di netto le pupille come nel celebre Cane andaluso di Buñuel e Dalí, perché in Nope lo sguardo è responsabile della vita e della morte, della condanna e della salvezza. Un dio implacabile di lovecraftiana memoria si sta, infatti, per abbattere sulle lande deserte ai margini di Hollywood e su chiunque osi guardarlo. “Ti getterò addosso immondizie, ti svergognerò, ti esporrò al ludibrio”, l’iniziale citazione biblica mette subito in chiaro la dimensione ironicamente escatologica del film: è la fine del mondo e chi guarda è perduto.
Un occhio nel cielo che brama di essere scrutato e che fotografa il mondo con il suo otturatore organico – che si apre e chiude proprio come il diaframma di un meccanismo ottico – nutrendosi di immagini e di corpi, pronto a catturare il reale. La voracità dello sguardo è il tema centrale del film di Jordan Peele, che allestisce uno spettacolo maestoso, a tratti epico come un western d’altri tempi o un film d’avventura e di caccia: la mente corre subito allo Squalo di Spielberg e quindi alla balena bianca di Melville (con tanto di capitano Achab in versione fotografo new age), ma questa volta fiocine e arpioni sono sostituiti da fotocamere digitali e analogiche, cineprese a manovella e dagherrotipi, in un progressivo ritorno agli albori della riproduzione fotografica del reale. Nell’epoca e nella società dell’immagine, infatti, la battaglia non può che combattersi sul piano dello sguardo, catturato o eluso, rincorso e desiderato, inconsapevole o addomesticato. Benevolo o violento. Perché ormai, in fondo, è davvero solo una questione di sguardi.
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