Regia di Jordan Peele vedi scheda film
Posture convenzionali e slittamenti, gradi di separazione tra il cosa e il come. Mentre la tendenza all’omologazione primeggia indisturbata, suggerita da una ricorrente linea d’azione posizionata fermamente sulla difensiva e che punta a massimizzare le certezze riducendo i rischi d’impresa, c’è ancora chi non getta la spugna e se la gioca a viso aperto. Chi non aspira a vivacchiare, chi si guarda alle spalle, con il rispetto dovuto, al presente, senza accomodamenti, e in avanti, dettando un metro espositivo con inossidabile convinzione.
Certo, nel caso specifico di Jordan Peele, è tutto più facile. Infatti, con soli due film (Scappa - Get out, Noi) è riuscito a farsi includere nella ristretta entry list di quegli autori che riescono con assidua costanza nell’impresa di sfondare sia tra il pubblico, sia tra la critica. A prescindere da questa considerazione a cappello, Nope è una pagina (semi) illibata del suo cinema, tanto fedele alle dichiarazioni d’intenti già impostate, quanto predisposto a sondare ulteriori siti. Senza ritrarre la mano, riprendendo punti cardinali che hanno segnato l’immaginario comune, per poi aggiungere fattori sui generis e modificarli in corsa.
In seguito alla morte del padre, avvenuta per un incidente inspiegabile, Otis (Daniel Kaluuya – Judas and the Black Messiah, Queen & Slim) eredita un ranch sperduto nel nulla. Tra mille difficoltà, tenta di andare avanti, scontrandosi con sua sorella Emerald (Keke Palmer – Le ragazze di Wall Street) e vendendo i suoi cavalli a Ricky (Steven Yeun – Minari, Burning – L’amore brucia), un uomo che, dopo aver superato un’esperienza traumatica in gioventù, gestisce un piccolo parco di divertimenti situato nelle vicinanze della sua proprietà.
Quando nella loro vallata cominciano a susseguirsi eventi che nulla hanno da spartire con la logica, Otis ed Emerald intuiscono di trovarsi al cospetto di un’entità fuori dal normale.
Insieme ad Angel (Brandon Perea – The OA), un tecnico esperto in video sorveglianza, tentano di capire di cosa si tratti e di immortalarne la forma, individuando un ulteriore potenziale aiuto in Antlers Host (Michael Wincott – Basquiat, Strange days), un regista affermatosi nel campo dei documentari.
Spingendosi sempre più vicino a qualcosa di sconosciuto e temibile, finiranno per avere un incontro ravvicinato, le cui conseguenze non sono immaginabili.
Nope iscrive il suo nome in una distinta - pressoché interminabile - che contiene tutti quei film che trattano il tema del contatto con entità estranee alla nostra conoscenza, assimilando le nozioni emanate tanto dai prodotti di Serie A (La cosa), quanto dai piccoli cult (Tremors), aggiungendoci poi molto altro di suo.
Nella fattispecie, la fantascienza invade uno scenario western (evocato in vari modi, anche nelle sonorità), il dramma fa da punto di partenza (con il peso di un’eredità, la difficoltà riscontrata nel farsi accettare), la commedia si presenta occasionalmente (vedi l’esuberante personalità di Keke Palmer), rimpinguando l’impasto con spruzzate di horror e grumi di tensione derivanti dal thriller.
Per inciso, Jordan Peele utilizza questa commistione, madida di rimandi e interferenze, per far saltare le marcature, tira la molla al limite prima di rilasciarla, preleva un know how assodato e lo giostra a suo piacimento, rendendosi non strettamente riconducibile ad alcuna equazione prestabilita. La prende larga, rifiuta di partecipare a una gara (chi arriva prima non deve per forza vincere), fermenta gradualmente andando a costituire una gigantesca intersecazione di contrasti, tra generi ma anche tra il visto e il percepito, la quiete e la tempesta, la ribalta e i sottotesti, escursioni (talvolta gratuite?) e tracce destinate a diventare dominanti, archetipi e – consistenti – variazioni sul tema.
Un patchwork filmico che non va per il sottile, portato ad abbondare anche andando fuori scala, a disorientare e suscitare sensazioni contrastanti (a spiazzare e avvolgere, gongolare e spazientire), scegliendo – senza ricorrere alla calcolatrice – dove andare a posarsi, quando soprassedere senza colpo ferire, passando oltre, e la porzione deputata a pasteggiare, dalla quale si evince un evidente upgrade, in virtù dell’apporto garantito dalle abilità tecniche fornite da Hoyte van Hoytema (Interstellar, Spectre).
Complessivamente, Nope ha parecchie cartucce da spendere, in tutte le salse, e non ha alcuna intenzione di finire semplicemente strangolato dagli stilemi di rito (che cavalca solamente quando vuole farlo), pur sapendo di andare a intaccare il rendimento che, a tutti gli effetti, rimane contestabile. Ha finiture rivedibili e filamenti entusiasmanti, valvole di sfogo che scardinano ogni difesa e conti da sistemare, colpi di reni e fasi di gestazione, punti esclamativi e contingenze prolungate che servono come punto di accumulo.
Un film che semina e raccoglie, risucchia ed espelle, trancia e connette,sempre con estrema disinvoltura, tra assonanze e divergenze, toni e passi in serena discordanza, shock improvvisi e diversivi estroversi, ornamenti stimolanti e rivendicazioni immancabili, smottamenti incisivi e rifornimenti continui, derivazioni conclamate e stoccate originali.
Gagliardo e straniante, perturbante e vulnerabile.
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