Regia di James Cameron vedi scheda film
Partiamo subito dalle confessioni scomode: tredici anni fa dopo aver visto Avatar ero (probabilmente) uno dei pochi che non gridava al miracolo.
In parole povere, nonostante l’eccellenza tecnica del 3D, l’ottimo cast, lo spettacolo degli effetti speciali e dell’ambientazione così minuziosamente ricostruita in CGI e di come fosse un western di frontiera molto (troppo?) alla Pocahontas (ovvero una “favol(ett)a” molto americana) camuffato da fantascienza (ma in realtà Avatar è soprattutto un fantasy) e piena di riferimenti, specie visivi, ai videogiochi (e dobbiamo dare atto a Cameron di essere stato in anticipo sui tempi), l’ho trovato abbastanza noiosetto ma ero soprattutto in disaccordo (ma questa è una questione soprattutto di gusti) con il design di ambienti e personaggi e con una evoluzione manichea che metteva la storia (e la trama) completamente al servizio della scena arrivando addirittura a degradare i personaggi, eccessivamente stilizzati e quasi degli archetipi narrativi alquanto banali, a semplici pedine da sfruttare a secondo dell’ambientazione o per valorizzarne i vari momenti scenici.
Questo senza minimizzarne assolutamente l’impatto mediatico e l’importanza che ha rappresentato nella storia del cinema ma (personalmente) riconducibile soprattutto al punto di vista economico (e di marketing) e al suo sviluppo tecnico e tecnologico (e del 3D) assolutamente di altissimo spessore.
A tredici anni di distanza la sfida di questo a lungo rimandato sequel a opera di James Cameron è quindi di ribadirne soprattutto l’impatto mediatico e tecnologico (ed economico) e poi solo successivamente (secondario e dire troppo?) cinematografico ma è innegabile che arriva in sala portando con sé molta attesa e tanta speranza. Forse persino troppa.
Per Cameron come per la stessa Disney, per la critica e per il pubblico.
Ma tanta attesa e speranza, per una volta, è stata ben ripagata grazie a un secondo capitolo, nonostante un effetto novità ormai sfumato, secondo me migliore del primo capitolo.
Cameron decide infatti di rifare (!) Avatar in versione familiare (e tendente al teen-movie) ma questa volta nell’acqua (che da The Abyss è l’elemento naturale, più dell’aria, di Cameron) riproponendo un meccanismo funzionale e scorrevole ma anche banale, e riportando in scena praticamente tutti (a parte la povera Michelle Rodriguez), redivivi (Stephen Lang) e “redimorti” (Sigourney Weaver) che siano, continuando la celebrazione del Mito del “buon selvaggio” sfruttando i sensi di colpa dell’americano medio e dei colonizzatori di origine europea mentre esalta al tempo stesso lo spirito delle popolazioni indigene di questa specie di Wakanda intergalattica e se nel primo Avatar omaggiava soprattutto i nativi americani e le tribù amazzoniche questa volta i maggiori riferimenti sono alla cultura e ai popoli del Pacifico, dalla Polinesia fino ai Maori, passando quindi dal verde delle foreste al blu degli oceani ma conservando la centralità della tematica ambientalista intrecciandola a una sorta di (rozza) filosofia New Age alquanto didascalica.
E come il primo Avatar anche questa nuova pellicola è, dal punto di vista narrativo, estremamente classico, profondamente connesso a molte fonti autorevoli sia del cinema che della letteratura, da Moby Dick a Il Libro della Giungla, da Zanna Bianca a Balla coi Lupi e al western fino a citare anche se stesso con Titanic (soprattutto) e The Abyss (o anche Aliens- Scontro Finale) in una sorprendente coerenza di insieme ma rimanendo comunque fedele a un’idea di scrittura semplice e immediata da esaltare attraverso una regia sontuosa ma umile, mai troppo appariscente, e agli effetti - e affetti - speciali.
La grande “metafora” di questo secondo capitolo è infatti la famiglia allargata all’american way con figli, figliastri e/o presi in “prestito” (magari anche dal proprio nemico) perché nessuno viene mai lasciato indietro e perché potranno anche essere alieni di una galassia lontana lontana... (a proposito di come Avatar sia per Cameron il suo Star Wars, e chissà se si riferiva ai guadagni stratosferici della saga o anche ad altro..) ma si comportano esattamente come una qualsiasi famiglia di una (qualsiasi) provincia americana.
E quindi ci si litiga e poi si fa pace, ci si tirano pacche sulle spalle o, nel caso, anche qualche scappellotto, i genitori non comprendono i figli (che ovviamente ricambiano) mentre i maschi si ritrovano in competizione tra loro per la maggiore attenzione dei genitori, il più giovane dei quali è ovviamente il classico outsider introverso e problematico destinato a un futuro da leader (ovviamente Alpha) esattamente come il padre, si cambia casa per lavoro (o per scappare da qualche maniaco omicida) come in una qualsiasi famiglia americana mentre i ragazzi finiscono per litigare con i figli dei nuovi vicini ricchi e potenti (e quindi per forza antipatici e stronzi), cercando magari di ammazzarsi tra di loro senza però che si arrivi a qualche azione legale (o almeno punitiva) verso gli autori di tali azioni e arrivando quindi a parlare anche di bullismo e di intolleranza come anche di odio verso il diverso (proprio come in una qualsiasi città americana) perché Pandora, in fondo, non è così diversa da Milwaukee (Illinois, USA) e l’adolescenza e i complessi rapporti tra genitori e figli è evidentemente qualcosa di problematico (e molto americano) per qualsiasi mammifero in qualsiasi parte della galassia (sempre poi che i Na’vi lo siano per davvero, mammiferi), ma il film elogia anche (e soprattutto) la capacità di andare oltre le apparenze favorendo la condivisione di sentimenti e conoscenze per una celebrazione (ed esaltazione) del concetto di integrazione e di società multiculturale, anche questo molto americano.
Di contro gli antagonisti (ovvero gli esseri umani) risultano fin troppo stereotipati anche nell’ottica di un racconto così manicheo che priva l’umanità di una qualsiasi forma di indulgenza, ancora meno rispetto al primo film e diventando ancora più profondamente iniqui, con evidenti riferimenti ai molteplici massacri compiuti dall’uomo verso la natura e insistendo moltissimo sulla nostra mancanza di empatia verso l’ordine naturale delle cose come anche nella nostra arroganza di pensare alla tecnologia come la chiave per dominare il mondo. O i mondi.
Dal punto di vista tecnico La via dell’acqua riesce invece a dire qualcosa di importante nonostante non presenti niente di veramente nuovo, migliorando ulteriormente la performance capture di un decennio fa grazie al lavoro di Joe Letteri e della Weta, coadiuvate da altre case come, ad esempio, la Industrial Light & Magic, e imponendosi nuovamente come principale punto di riferimento nel campo degli effetti speciali, investendo tantissimo in processi espressivi di altissima qualità che per rendere al meglio necessitano assolutamente e soltanto della sala cinematografica.
In questo senso, nella tecnica e nel suo uso, questo è davvero Cinema con la C maiuscola, in quanto non ripresentabile con gli stessi risultati anche in altri ambienti come quello domestico.
Ottimo il lavoro del cast sia riguardo a quello di ritorno, da Sam Worthington a Zoe Saldana fino a Stephen Lang e Sigourney Weaver, sia ai nuovi, da Kate Winslet (che torna a lavorare con Cameron dopo Titanic, a Cliff Curtis oltre ai giovani Britain Dalton, Jamie Flatters, Jack Champion e Filip Geljo che riescono a creare un senso di intimità familiare profondamente umana (troppo umana?).
Concludono il cast Eddie Falco, Joel David Moore, CCH Pounder e Matt Gerald.
Avatar 2 è in ogni caso una pellicola riuscita perché evoca nuovamente quella sindrome favolistica per un luogo (virtuale) che in realtà non esiste ma che tutti vorremmo visitare, prima o poi, per quanto irrazionale o illogico possa essere o per quanto frequentato da personaggi tagliati con l’accetta e che si muovono su binari morali estremamente semplificati (buono e cattivo, bianco e nero, alieno e umano) e quindi proprio per questo facilmente assimilabile dal pubblico (tutto è lineare, esplicito, diretto e catalogabile in pochi secondi e senza alcuno sforzo) e le ambiguità non dico che siano totalmente assenti ma vengono comunque date per scontate o non sono il punto focale dei personaggi e della storia finendo per appiattirla o almeno a non renderle poi così importante quanto la sua messa in scena.
Non c’è alcun dilemma o titubanza, nessuna metafora post-moderna o rielaborazioni alternative e quindi nessuna (vera) sorpresa ed è questo il suo più grosso limite.
VOTO: 7,5
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