Regia di Dziga Vertov vedi scheda film
Storia di un amore a distanza impegnato sui due fronti della guerra, quello sul campo contro i tedeschi e quello interno per garantire ai soldati la vittoria. Girato nel 1942 in pieno conflitto mondiale dal maestro del documentario Dziga Vertov, il film racchiude tutti i crismi del film di guerra, conservando poco o niente della visionaria forza eversiva del regista kazako: invito alla militanza e all’impegno femminile nel lavoro; esaltazione delle virtù del popolo sovietico e delle risorse minerarie, alimentari e strategiche del paese; storia bidimensionale, usata come semplice corollario per imporre un modello unitario di propaganda.
Sembra un altro Vertov, un regista che non ha niente in comune con l’autore di L’UOMO CON LA MACCHINA DA PRESA, capace soltanto saltuariamente di sfogare la propria abilità con la cinepresa, come nell’incipit grazie ad una serie di primi piani sempre più ravvicinati sull’anziano narratore della vicenda. Vertov privilegia ciò che racconta, non ciò che l’immagine può raccontare: vola basso dunque, e rispetto a L’UOMO CON LA MACCHINA DA PRESA non sfida lo spettatore con analogie e avanguardistiche tecniche di manipolazione della realtà visiva, ma comprime il contenuto in fotogrammi elementari e quasi sempre privi di ambizioni artistiche, proprio perché il pubblico a cui si rivolge è diverso, ovvero l’intero popolo sovietico. Soffocare così il proprio talento per consentire a chiunque di vedere. Ma vedere cosa? Prima di tutto un’opera di convincimento per le masse, finanziata su misura dalle autorità per sfruttare il cinema come servizio e non come espressione artistica. Basterebbe questo a condannare un film che, se tolto dal contesto in cui è stato realizzato, appare cinematograficamente poco significativo, chirurgicamente modellato per cementificare la fiducia di una nazione in guerra con una struttura filmica manicheista che non consente dubbi e non vuole allargare il campo di ulteriori contenuti sociali e politici. Un cinema, se si può veramente definire tale, basato sulla mostrazione (di solidarietà e richiamo nazionale) e non sulla narrazione, anche perché Vertov fallisce proprio dove la lezione documentaristica non può aiutarlo: se con L’UOMO CON LA MACCHINA DA PRESA aveva rotto i legami transitivi delle immagini e del montaggio creando un film compiuto e straordinario dalla non-narrazione, con A TE FRONTE! Vorrebbe al contrario realizzare una pellicola che si inserisce nel cinema di racconto, ma è proprio l’incapacità di gestire la narrazione che lo costringe a privilegiare lunghe sequenze di taglio documentaristico che si allontanano dal nucleo della vicenda o a dimenticare il ruolo del narratore, cosicché i personaggi restano soltanto abbozzati, l’evoluzione della storia è volutamente in secondo piano e senza un credibile sostegno della regia, i contenuti finiscono per soffocare il resto della materia cinematografica. Se la valutiamo come opera di cinema non possiamo non tener conto di scenario e contesto in cui è stata filmata, così come delle implicazioni sociali sulle quali si concentra quasi ossessivamente. Ma siamo sicuri che siano i punti che hanno reso debole il film? Credo al contrario che la poca forza di A TE FRONTE! Muore proprio spogliando il film delle ragioni che ne hanno deciso la nascita, le stesse che ci portano oggi a pensare se un film può resistere alla prova del tempo con efficacia: a volte può assumere significati diversi e coprirsi di immortalità pur partendo da presupposti propagandistici come LA CORAZZATA POTEMKIN, ma a volte, quando il cinema si dimentica di essere cinema riducendosi a messaggio illustrativo, quanta vita può avere?
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