Regia di Milos Pusic vedi scheda film
Lavoro e criminalità: un binomio mortale. Una miscela che genera disperazione, creando nuovi demoni.
Rabbia. Questo è lo stato d’animo che il film insegue, dall’inizio alla fine. Ma lo fa con il tono asciutto e diluito tipico del cinema balcanico, che, a fronte di un tema così delicato, sfiora il cinismo, appena mitigato da un sospetto di ironia. Un cantiere abusivo, una truffa per ottenere finanziamenti, un gruppo di lavoratori in nero sottopagati e senza alcuna garanzia sono gli elementi essenziali di una storia i cui registi, un uomo e una donna posti al vertice di un’impresa edile di stampo criminale, sono personaggi di sfondo, le vere marionette della torbida logica degli affari. I protagonisti in carne ed ossa sono invece loro, gli sfruttati, che all’ombra di uno scheletro di cemento armato si aggirano alla ricerca di un modo qualunque, anche estremo, di affermare la propria dignità. Dietro la facciata si snoda così un labirinto di gesti e idee con cui lottare di nascosto: a gestire la trama sono infine proprio loro, le vittime, armate di un coraggio smisurato e di una spaventosa immaginazione. Spirito di sopravvivenza e istinto di vendetta rispondono per le rime alla banalità del male, la cui fantasia non va oltre il fragile strumento della menzogna. Se ci si concentra su quest’ultimo aspetto, la storia appare inevitabilmente debole, scarna e sbrindellata come il suo scenario, fatto di terra battuta, erbacce, pilastri, altissimi muri grigi con lunghe file di finestre vuote. Solo muovendosi dalla desolazione dell’ambiente esterno verso l’invisibile universo dei sentimenti e dei pensieri che si contorcono, laggiù, al livello del suolo, si può avvertire un potente senso di rivolta. A rigirarsi nel fango, con diabolico ingegno, sono quei poveri dannati, che si industriano per scavarsi un cunicolo nelle viscere dell’inferno in cui si trovano rinchiusi. Il mondo circostante, con il suo atteggiamento repressivo, finirà per favorire la loro intraprendenza, fornendo loro inconsapevolmente le armi per portare a termine un terribile piano. L’ultima sequenza ne propone l’efficace e spiazzante metafora. Il contrasto si risolve dunque con un cerchio che si chiude, il classico serpente che si morde la coda. L’accento conclusivo, un urlo freddo ma lacerante, ci costringe a rivedere l’intera estetica dell’opera con occhi diversi: ciò che ci sfuggiva, lasciandoci insoddisfatti, di fronte ai consueti segni del profondo disagio umano (dall’alcolismo all’autolesionismo), era semplicemente celato per causa di forza maggiore. Era frammentato come ghiaia sotto un rullo compressore, dissolto in mille pezzi, senza forma, nell’attesa di compattarsi in un solido blocco, in cui anche i materiali più disomogenei si possono validamente aggregare.
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