Regia di Ferzan Özpetek vedi scheda film
Una storia come tante. Una coppia giovane, evidentemente agiata, forse felice, ma di un affiatamento un po’ appiattito nel bon ton (come appare nella prima sequenza del finto abbordaggio, un po’ forzata e stridente, non si sa bene se per scelta narrativa o per la maldestra recitazione dell’attore che interpreta il marito). Lui muore all’improvviso, e Antonia si isola in un silenzio affranto, finché non scopre che aveva un’amante. Che però si rivela un amante, un uomo, Michele, affranto quanto lei e molto più rancoroso. E qui parte la vera storia che Ozpetek vuole raccontare, quella delle “fate ignoranti”, del gruppo di bizzarri, diversi (non solo omosessuali), profughi, ammalati (di Aids e d’amore), di cani sciolti di passaggio, che animano la “famiglia” di Michele e che diventano, tra asprezze e distrazioni, la nuova famiglia di Antonia, fino a farle scoprire volti nuovi nella sua vera famiglia e in se stessa. Non è perfetto, “Le fate ignoranti”, sospeso in equilibrio delicato tra la commedia di tutti i giorni e la sofferenza sottile che si nasconde dietro i sorrisi e le battute amare. Ma, anche imperfetto, anche con toni che a volte sfiorano l’abisso soap nel quale è sprofondato il cinema italiano, è un film vivo. Vive del suo vero amore per i suoi personaggi, della voglia non di giustificarli ma di capirli, delle sfumature dell’anima alle quali arriva. Ha coraggio, non solo il coraggio di mettere al centro della scena i “diversi” (Ozpetek insiste su un punto: il suo non è un film gay o di soli gay), ma soprattutto quello di prendersi i suoi tempi: i tempi delle pause addolorate e silenziose, degli sguardi di Margherita Buy persi nel vuoto, nel fiume e nel ricordo, i tempi necessari a una profuga per passare dal buonsenso casalingo alla malinconia, quelli capaci di trasformare una terrazza in un “luogo” narrativo e di rendere plausibili maturazioni e cambiamenti. E i tempi, nel cinema a rotta di collo dal quale siamo circondati, non sono poco.
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