Regia di Alejandro González Iñárritu vedi scheda film
Capitale messicana. Un fatale incidente automobilistico fa in modo che vengano incrociate le vite di tre eterogenei personaggi: Octavio (Gael Garcia Beral), scapestrato ventenne (il quale cerca di sbarcare il lunario con dei combattimenti clandestini tra rotweiler), nonché nefasto spasimante della moglie del fratello, cassiere di giorno e rapinatore di farmacie la notte; Valeria (Goya Toledo), modella da copertina di riviste di moda, amante di un pubblicitario padre di famiglia con cui dividerà la nuova casa assieme al suo barboncino Richie; e infine El Chivo (Emilio Echevarría), giustiziere a pagamento, ex borghese di facoltose origini, ora residente in una baracca abbandonata popolata da cani randagi, di cui si occupa personalmente (è l’ultima compagnia che gli è rimasta)... Esordio di Alejandro González Iñárritu compassato nella forma, filtrato da una fotografia sporca e bellissima di Rodrigo Prieto, estremamente anètico nella natura abietta dei suoi contenuti (vergati da Guillermo Arriaga), "Amores Perros" è un lungometraggio catastrofico, a tratti perverso, in certi punti rabbonente, dove si diluiscono i cataclismi che congiungono i destini sciagurati di protagonisti agli antipodi (quelli disagiati della prima parte, e gli abbienti della seconda) in un losco e meschino dramma contemporaneo. La poetica del regista latino rimarca il criterio tramite il quale ciascuno avverta difformemente la propria sofferenza, rilevando quali siano le avversità che ci tormentano l’esistenza; le stesse che plasmano noi stessi, diffondendosi e dissolvendo fluidi insalubri nel microcosmo urbano: Iñárritu ha una leggerezza di tocco in grado di corroborare lo sguaiato decorso dei caratteristi, lambendoli nel loro stoico supplizio.. Alacre e tachicardico il pezzo iniziale, che vede lo sregolato Octavio oppresso da una situazione selvaggia e altisonante, attigua a uno sviluppo morboso di un sentimento abbacinantemente incontrollabile verso la cognata; patinato e meno travolgente il segmento di Valeria, il quale però ha la qualità di protendere, per mezzo di un simbolismo metaforico stolto ma azzeccato, lo spago sottilissimo che separa una condizione di sommo benessere (il nuovo appartamento glamour in cui coabita) dalla dimensione infernale del sottosuolo (da cui si può accedere dalla crepa del pavimento). Riuscitissimo invece il terzo coccio della storia, quello di El Chivo, in netto conflitto fra istinto e onniscienza, territori vissuti dall’antieroe di questa vicenda sia da mentore che da combattente. La chiusa dell'episodio, ermetica e tutt’altro che consolatoria, ci abbandonerà all’orizzonte dinanzi a un futuro incerto dal bagliore metafisico. Il dominio sull’habitat e la cupidigia forgiano gli impulsi dei ragguagli interpersonali. La ”passione rabbiosa” che lega le disgrazie di Octavio, Valeria ed El Chivo è radicale, pazzoide, esorbitante, orientata al tracollo. Le povere bestiole, le quali irrompono nei vari eventi, stemperano e tramutano indelebilmente l’identità delle maschere chiamate in gioco, poiché, come recita la didascalia terminale, “siamo anche ciò che perdiamo”.
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