Regia di Steven Soderbergh vedi scheda film
La luce di Tijuana ha le tonalità giallo-arancio di un sole malato. I colori dell’Ohio e delle stanze del potere di Washington sono avvolte da un blu gelido. Il cielo di San Diego ha il chiarore neutro e uniforme delle news televisive e del docudrama hollywoodiano. Steven Soderbergh, macchina da presa in spalla, ispirandosi a una miniserie televisiva britannica del 1989, si mette al telaio, sceglie i diversi colori della sua stoffa e comincia a tessere la trama. I fili si accostano, si sfiorano, tracciano curve, ombre, disegni che restano isolati, secondo una rigida economia del codice cromatico. Paralleli
e divergenti. Tre luoghi diversi per tre storie principali: due poliziotti messicani (Benicio Del Toro e Jacob Vargas), due agenti della Dea e una moglie (Catherine Zeta-Jones), un giudice (Michael Douglas) della Corte Suprema dell’Ohio con una figlia tossicodipendente. Questi personaggi combattono contro la droga guerre pubbliche e private. Infatti, nella “mexican connection” il sangue dei cartelli si confonde con quello delle famiglie. Traffico di stupefacenti e di emozioni. “Nashville” è il modello alto della messa in scena. L’american beauty di fronte alla musica, alla disperazione di un incubo (“Magnolia”), a una guerra che non può essere vinta ha bisogno di un racconto, con tempi lunghi e attori bravissimi, che sia un puzzle e una rete. Senza giudizi o prediche.
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