Regia di Alejandro Loayza Grisi vedi scheda film
Considerato la grande rivelazione del Sundance film Festival, dove ha ricevuto Gran Premio della Giuria , questo film è stato scelto per rappresentare la Bolivia agli Oscar, come miglior film in lingua non inglese.
Alejandro Loayza Grisi, il regista, è al suo primo lungometraggio, ma ha un passato da documentarista-fotografo, che si avverte già all’inizio del film, per la qualità delle bellissime immagini del paesaggio desertico dell’altopiano boliviano, ogni tanto ravvivato dal verde dei cespugli, meno radi all’approssimarsi delle pendici andine che fanno da sfondo.
La fotografia, nitidissima e suggestiva, ci fa conoscere anche i poveri interni delle case dei nativi Quecha; i volti rugosi degli uomini e delle donne, il loro triste invecchiare, tirando avanti come possono in quella terra sempre più avara dalla quale si erano già allontanati i fratelli più avventurosi e i figli, alla volta della città, nella speranza di condizioni di vita meno grame.
Di che cosa parla il film
Questo non è un documentario, ma un film poetico, che racconta, in una sorta di flusso di coscienza per immagini, l’altra faccia del paesaggio, attraverso suo inaridirsi , che sembra simbolicamente corrispondere al decadere fisico del vecchio protagonista, Don Virginio (José Calcinal).
L’uomo è quasi cieco: la sua individuale percezione del mondo è offuscata dal tremolio e dell’incertezza dei suoi occhi, quasi stinti dagli anni, ma è, al tempo stesso, lucidissima nel cogliere i segnali interni dell’inarrestabile approssimarsi della morte.
Virginio non ce la fa più ad accompagnare il suoi lama – la piccola mandria che porta i nastri rossi a contrassegnare la sua proprietà – al di là del fiume, ora fangoso ma un tempo limpido, per raggiungere i cespugli da brucare. Egli è costretto a vivere sempre più a ridosso della casa dove la moglie Sisa (Luisa Quispe) provvede con una pompa, sempre più avara, al rifornimento dell’acqua necessaria agli usi quotidiani e anche alla semina degli ortaggi.
Alla filatura della lana pregiata, alla cura e alla pulizia della casa, alla cucina – le normali attività di un tempo, ora ha aggiunto l’accudimento attento di quel marito, la preoccupazione per la sua tosse violenta che non se ne va, la premura per l’uomo che continua ad amare come ci si ama nei luoghi deserti: nel reciproco sostegno silenzioso.
A intervalli regolari, nei weekend, la visita di Clever (Santos Choque) l’adorato nipote, figlio di un fratello di Virginio, arrivato dalla città, di solito rallegrava la vita dei due vecchi zii.
Non si era fatto vivo ahimè per la festa del paese il povero Clever: tanto era bastato a Virginio per brontolare e respingere la proposta di seguirlo in città, dove le tossi ostinate si curano e dove la vita è meno stentata.
Il vecchio zio malato è ostinato almeno quanto la sua tosse: neppure lui se ne vuole andare dalla sua terra, mentre gli abitanti del luogo se ne scappano lontano!
Sa che alla stagione della siccità seguirà quella delle piogge e ha imparato dal condor ad attenderne l'arrivo in cima alla montagna, ora che si approssima la fine della sua stagione: non intende contrastare il processo di trasformazione del suo corpo, cosciente che la morte, che molti temono, non è altro che la metamorfosi dei corpi in altra vita…
Il film non ha un vero intreccio narrativo, ma nel suo procedere lascia scorgere – oltre alle relazioni parentali e ai problemi del mutare del clima e della progressiva desertificazione delle terre – la profonda, insanabile frattura tra il mondo dell’altopiano – a 4200metri di altitudine – che è quello dell’Heimat e dei suoi lama; quello della casa e di Sisa e il mondo della città, delle cose effimere, delle chiacchiere inutili, che non servono a esorcizzare la morte.
Quasi senza parole – come accadeva col cinema muto – questo piccolo film di soli 87 minuti ci regala emozioni profonde e ci invita a guardare al nostro destino ineludibile, con altri occhi e con l’animo sereno.
Davvero da non perdere.
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