Regia di Ettore Scola vedi scheda film
La specularità come struttura narrativa a volte può anche funzionare. Due famiglie, appena un filo sfalsate nella scala sociale: un capofamiglia ha un negozio di abbigliamento maschile, l’altro una merceria. Porta a porta, di casa e di bottega. Due mogli civili e discrete, figlio adolescente/figlia adolescente (innamorati), cameriera/cameriera (chiacchierone), bambino/bambino (stessa classe). Per almeno mezz’ora, a parte Abatantuono e Castellitto, non si distingue chi appartenga all’una e all’altra delle famiglie. Nella “Famiglia” succedeva più o meno la stessa cosa, solo che là c’erano Fanny Ardant e Stefania Sandrelli, Vittorio Gassman e Carlo Dapporto a dare, almeno, lo spessore della loro personalità ai personaggi. Qui, non solo tutto si impasta in un anonimato formato cartolina (comprese quelle due parate fasciste messe là tanto per far vedere che c’erano i balilla e le giovani italiane), ma la stessa narrazione si apre si chiude in un serie di sketch allineati. Se Scola conosce ancora la fluidità della macchina da presa (e il carrello va), ha perso invece quella del racconto. Che arranca in un sopore televisivo dietro all’invadente voce off del bambino narratore. E la specularità non si fa metafora, ma schematismo da sussidiario. Le leggi razziali imposte nell’Italia fascista furono un orrore: “Una giornata particolare” quest’orrore ce lo faceva sentire, “Concorrenza sleale” ce lo fa “dire”. E al cinema non basta.
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