Regia di Oliver Hermanus vedi scheda film
Kazuo Ishiguru è uno scrittore britannico di origine giapponese, noto soprattutto per il Nobel per la Letteratura vinto nel 2017. La motivazione recitava:” Perché, nei suoi romanzi di grande forza emotiva, ha svelato l’abisso sottostante il nostro illusorio senso di connessione con il mondo”. Ha scritto, tra l’altro, un romanzo “Quel che resta del giorno” nel 1989, che gli valse il Booker Prize e la cui trasposizione nel film omonimo, con Emma Thompson e Anthony Hopkins, lo ha lanciato nella notorietà internazionale.
Entrambi, LIVING e QUEL CHE RESTA DEL GIORNO, fanno riferimento a un mondo ormai passato, trascorso. C’è in Ishiguro una sorta di dispiacere per quel che è avvenuto e cioè la transizione tra un mondo tradizionale, con valori ben definiti e comportamenti più o meno appropriati e quello attuale, dove è sempre più arduo riconoscere certi punti di riferimento, individuare una linea coerente tra i sussulti, i sommovimenti impetuosi, i rivolgimenti di stili di vita, di pensiero e di condotta.
Nel film in esame, si respira chiarissimamente la comunanza tra due modi di essere, due mondi, due stili di vita. Mi riferisco a quello giapponese e a quello britannico coniugati al passato. Non è difficile notare come Ishiguro si senta a suo agio nel raffigurare la realtà inglese che sente come congeniale. Nel protagonista, uno splendido Bill Nighy, possono coesistere tranquillamente l’anima giapponese gentile, delicata e premurosa che il grande Ozu, o lo stesso Kurosawa, ci hanno regalato e quella britannica, così compassata, auto-disciplinata e rigorosa che conosciamo attraverso letteratura, cinema, teatro e conoscenza personale.
Difficile trovare in altri film, un quasi irrilevante episodio quale quello narrato, con così tanti segnali che rimandano invariabilmente ad altro.
Giunto alla soglia del pensionamento, Mr.Williams, dirigente del Consiglio di Contea di Londra (una sorta di Amministrazione Provinciale), si rende conto di aver trascorso una vita immerso tra scartoffie, routine, anonime valutazioni tipiche di un organo amministrativo e di non avere veramente fatto qualcosa degno di essere ricordato. Tutto ciò che ha fatto lo si trova nella sua firma apposta in calce a miglia di pratiche che per decenni sono state i testimoni muti di una esistenza noiosa, tutta improntata ad una rigidità, ad una freddezza, ad un’indifferenza che hanno accompagnato per tutto il tempo le relazioni con “gli altri”, i cittadini, i colleghi, i superiori, i sottoposti, i famigliari stessi. E’ tale la sua riservatezza, il timore di smuovere anche impercettibilmente i sentimenti degli altri che non riesce nemmeno a confidare al proprio figlio di avere un tumore che lo sta portando alla tomba.
E se non riesce a comunicarlo al figlio, figuriamoci agli altri. Vincendo questa sua insopportabile (per noi) ritrosia nel parlare di sé stesso e dei propri problemi (e immaginiamo QUANTO gli sia costato!), comincia a confidarsi con una ragazzina che gli sembra non afflitta dalla ormai vituperata (per lui solo, ovviamente) condotta britannica che si addice ad un funzionario pubblico. Ha rotto i vincoli che lo tenevano legato a quel modo di essere e vivere e ha deciso che la sua vita ha bisogno di un cambiamento netto col passato. L’insistenza (prima inaudita) con cui “implora” il suo superiore per grado di dare priorità a un progetto per la realizzazione di un campetto per giochi in un’area urbana di competenza della Contea, rivela che qualcosa è avvenuto. Gli stessi suoi colleghi o collaboratori se ne dimostrano stupiti. Un campetto per giochi. Una cosetta che ci fa sorridere. Un’enormità, invece, a quanto pare: vincere il tradizionale iter burocratico noioso, scontato e insistere per dare priorità a qualcosa di improduttivo economicamente deve essere stata un’impresa molto ardua.
Così come dare dignità alla sua vita. La dignità vera, non quella dell’imperturbabilità, della monotonia, della noia. La dignità invece di dare a un quartiere qualcosa di diverso, che gli dia la sensazione piacevole di aver fatto qualcosa di non scontato, di non prevedibile, qualcosa che gli permetta di sedersi sull’altalena, felice, nel gelo invernale e canticchiare una vecchia canzone scozzese che tanti decenni prima aveva scosso il suo animo e che da allora non ha più cantato.
Piccolo racconto. Ma grande racconto. Piccole cose. Ma grandi cose. Piccolo uomo, ma grande uomo. Così lo ricordano il “bobby” del quartiere e un suo collaboratore. Se non fosse stato per quel campetto, nessuno lo avrebbe ricordato. Mr. Williams ora riposa in pace e, in fondo in fondo, qualcosa di buono è riuscito a farla nonostante trent’anni di scartoffie, noia, indifferenza, valori in certo modo ammuffiti. La piccola vittoria di un piccolo uomo scopertosi finalmente dotato di umanità.
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