Regia di Patrice Leconte vedi scheda film
Patrice Leconte adatta "Maigret e la giovane morta" nello spirito dei romanzi duri simenoniani. Felice intuizione a cui contribuisce la superba interpretazione di Gerard Depardieu.
Se mi definissi bibliofilo, molti amici, tra cui il buon Lorenzo Curti (l’utente Stanley42), mi smaschererebbero subito e congiurerebbero per togliermi la vita. Ho letto poco, troppo poco nella mia vita e non c’è giorno che non me ne rammarichi. Ma in quel poco c’è lui: Georges Simenon, il grande scrittore belga.
Mi appassionai alla sua arte quando, anni fa, mia madre fu costretta a casa per un lungo periodo a causa di due seri interventi chirurgici a distanza di poco tempo. In quelle settimane estive, La7 trasmetteva una vecchia serie tv franco-svizzero-belga, Il commissario Maigret (1991-2005) con protagonista Bruno Cremer, che in Italia si era vista prima su Rai3, poi su Rete4, quindi su Fox Crime ma senza ottenere mai chissà quale visibilità. Il ricordo della malattia di mia madre sarà da me sempre associato a questa serie tv, pervasivamente reclamizzata da La7 all'epoca, che prendemmo l’abitudine di vedere insieme di mattina o nel primo pomeriggio. Raramente ho condiviso visioni di film o serie con mia madre ma il mix tra le sue condizioni di salute, il mio desiderio di passare quanto più tempo possibile con lei e i suoi racconti nostalgici di quando, da bambina, vedeva in famiglia sulla Rai Le inchieste del commissario Maigret (1964-1972) con protagonista Gino Cervi resero possibile questo miracolo.
Non saprei formulare un giudizio obiettivo sulla serie tv con protagonista Bruno Cremer: all'epoca ero uno sprovveduto spettatore generalista. So solo che quelle visioni mi fecero innamorare del mondo di Simenon. Ero rimasto talmente folgorato dalle ambientazioni uggiose parigine, dal taglio ironico ma non sbruffone del commissario, dalla raffigurazione di personaggi umanamente tangibili e lacerati da istinti primordiali che mi resi immediatamente conto di non poter in alcun modo accontentarmi dello schermo: dovevo risalire alla pagina scritta.
Non ho letto l’opera omnia, mi perdonino dunque i simenoniani doc e i bibliofili veri ma, anche a costo di risultare blasfemo, ritengo che i veri capolavori dello scrittore belga non siano i cicli dedicati al commissario Maigret. Personaggio adorabile anche su carta, sia chiaro, protagonista di intrighi polizieschi tratteggiati sempre con cura, sempre con dovizia di particolari, sempre con intelligenza, arricchiti dal rapporto adorabile con la moglie e dal rimosso della figlia morta che emerge di tanto in tanto come trauma irrisolto.
I veri capolavori di Simenon sono i cosiddetti romanzi duri, cioè quel ciclo di storie che, dietro gli stilemi del poliziesco tutti sapientemente sabotati, celano lo straordinario affresco di spaccati di vita di uomini e donne collocati in un preciso contesto spaziale. In altre parole, si tratta di noir scarnificati, ridotti all’essenziale, con un incipit spesso in medias res e quasi sempre senza un vero scioglimento dell'intrigo. Se Raymond Chandler era un maestro del deliquio onirico, cioè di quella capacità di stordire il lettore con 2686 nomi diversi di personaggi diversi di vicende intricatissime che però restituivano chiaramente e organicamente l’ambiguità morale di un’epoca (Dmytryk, Hawks e Altman non potevano non andarci a nozze, per motivi diversi), al contrario Simenon ha il coraggio di far coincidere l’atto narrativo con l’atto descrittivo. Nei romanzi duri simenoniani di azione vera e propria ce n'è poca perché descrivere è narrare e narrare è descrivere: personaggi, certamente, ma soprattutto ambienti. La descrizione minuta di tutti i particolari di ogni ambiente, di ogni spazio, di ogni luogo, di ogni abito indossato, di ogni gesto quotidiano si fa veicolo della tensione narrativa del giallo, oltreché senso stesso della narrazione. Le azioni caratterizzanti il genere (omicidio/indagine) sono solo la conseguenza di un sottomondo socioculturaleantropologico reso vivido da lunghissime descrizioni d’ambiente, puntellate qua e là da dialoghi magistrali per coerenza e aderenza tra personaggi e luoghi, quasi i primi fossero diretta emanazione dei secondi. Il miracolo sta nella peculiarità dello sguardo di Simenon: mai cinico entomologo o severo moralizzatore, sempre umano tra umani (non stupisce il suo amore per Il monello di Chaplin, testimoniato da una lettera inviata a Chaplin stesso in occasione della riedizione del film in sala¹). In nuce: il noir come luogo dell’anima che può essere indagato a partire da elementi statici, fissi, caratteristici di un determinato luogo. La presenza di determinati tipi umani ne è solo logica conseguenza. Simenon, però, va oltre il solito adagio critico-narrativo "il vero protagonista è il luogo". Sarebbe troppo semplice.
La protagonista indiscussa dei romanzi duri è la malinconia. Se Maigret risolve sempre l’indagine con successo, al contrario i romanzi duri si chiudono sempre con più domande che risposte e con un climax di tensione (spesso insostenibile) che rimane spesso irrisolto, lasciando addosso la disagevole sensazione che ciò che si sia appena finito di leggere non possa quasi per definizione giungere ad una risoluzione. Gli abissi (anche umani) descritti da Simenon sono il trionfo dell'immobilismo morale ed emozionale davanti al quale non si prova mai rabbia (il vigore retorico del pamphlet di impegno civile è assente) né godimento o compiacimento (non è mai una fredda e calcolata gara al massacro) ma solo malinconia per quello che la vita riesce spesso a (dis)fare. Malinconia che si rinnova pagina dopo pagina, soprattutto quando si inizia tristemente a comprendere che i limiti e la cecità dei personaggi e delle passioni che li animano siano anche i nostri e siano ancora oggi tremendamente diffusi. Non è importante che La Marie del porto sia ambientato nel 1938: certe pulsioni costituiscono ancora oggi il tessuto della nostra società.
Da vero simenoniano, il regista Patrice Leconte prende Maigret e la giovane morta (1954) e lo adatta nello spirito dei romanzi duri. Se, da un lato, non può esimersi dal rispettare le tappe del genere compresa la risoluzione dell’intreccio giallo, dall’altro eleva la summenzionata malinconia a principio universale, sin dall'incipit, connotato da uno strepitoso montaggio alternato tra la svestizione di Maigret (un monumentale Gerard Depardieu) per la visita dal medico e la vestizione di una giovane che dovrà recarsi ad una festa dove farà una brutta fine.
Nell'accostare il commissario alla giovane morta che innescherà i meccanismi di genere, Leconte sembra provare malinconia per il cinema dei padri che, dopo sessanta e passa anni di nouvelle vague di ogni tipo, sembra quasi un'onta tentare di rifare e omaggiare. Il Maigret di Depardieu ha lo stesso passo incerto del Jean Gabin ferroviere alcolizzato di L'angelo del male (1938) di Jean Renoir. Peggio dell'alcol c'è, forse, solo l'amarezza dell'anzianità che fa riaffiorare ricordi a ogni piè sospinto (tutti rigorosamente fuori campo, solo suggeriti dalla superba interpretazione attoriale), alcuni anche molto utili per risolvere l'intrigo: quanto della (idea della) figlia prematuramente scomparsa di Maigret c'è nella giovane morta che innesca la vicenda? Quanto delle speranze dell'altra giovane conosciuta per caso - ma rivelatasi per pura intuizione da detective utilissima all'indagine - coincidono col vissuto giovanile di Maigret stesso, un giovane adulto di provincia che cercava sopravvivenza nella metropoli? Quanto questa componente biografica aiuta il commissario a calarsi pienamente nell'indagine? Quanto questa conoscenza di sé è funzionale al comprendere i 'perché' dietro un delitto? 'Perché' intesi non come puri moventi materiali e superficiali ma come ragioni profonde dell'anima: il regista sembra, in tal senso, allinearsi ai commentatori che ritengono che Simenon abbia trasformato il whodunit classico in una sorta di whydunit.
Patrice Leconte, unitamente al co-sceneggiatore Jérôme Tonnerre, si inebria a tal punto di questa malinconia per un cinema ormai dimenticato (pur essendo nello spirito eternamente giovane) da smarcarsi completamente dall'asfittica dicotomia film d'autore-film di genere. E confeziona un noir fuori dal mondo (che, infatti, ha fatto fiasco al botteghino persino in patria, pur con cifre che in Italia ci avrebbero fatto urlare al successo: questione di proporzioni), dai toni crepuscolari e fantasmatici, lontano dal rischio di calligrafia nelle scelte di costumi e scenografie e nei cromatismi fotografici, giocati tra il blu polveroso/carta da zucchero e l'ardesia.
Sarà che la mia prima esperienza con la cosmogonia simenoniana sia stata all'insegna della malinconia in un periodo molto problematico della mia vita; sarà che la malinconia costituisca uno dei tratti di tanta produzione dello scrittore belga; sarà che il cinema dei padri mi abbia sempre scaldato il cuore più di tanto cinema provocatore e ribelle dei figli (e soprattutto di nipoti e pronipoti); sarà che i toni crepuscolari e umanitari riescano a toccare la mia sensibilità più di ogni altra cosa (amo Chaplin almeno quanto lo amasse Simenon); sarà che Depardieu, quando è al massimo della condizione, rimanga uno dei più grandi attori di tutti i tempi anche da ultrasettantenne; sarà che la battuta sulla pipa magrittiana mi abbia sconquassato in due dalle risate; sarà che questo cinema di gran classe sia il motivo per cui sono innamorato della settima arte.
Sarà quel che sarà. Sia quel che sia. Maigret di Patrice Leconte del 2022 è davvero un grande film.
1. 24 gennaio 1974
Mio caro Charles,
erano dieci o dodici anni che non mettevo piede in un cinema, ma ieri ho voluto assolutamente rivedere Il monello, che avevo visto la prima volta nel 1922. È stata un’esperienza commovente: ho ritrovato tutto quello humour e tutta quella dolcezza che avevo tanto amato allora. Io sono invecchiato in questi anni, ma il tuo film non è invecchiato nemmeno di un giorno. Sono andato alla proiezione pomeridiana e sono stato circondato dalle risate di centinaia di bambini. Il tuo cinema resterà sempre giovane, come te.
Salutami caramente anche Oona.
Il tuo Georges Simenon
Booklet (a cura di Cecilia Cenciarelli e Elena Correra) di accompagnamento al DVD di The Kid. Il monello, Edizioni Cineteca di Bologna, 2016
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