Regia di Emanuele Crialese vedi scheda film
Uno dei film italiani più attesi a Venezia79, quest'anno.
Crialese è uno dei (pochi) registi italiani contemporanei che molto apprezzo, perché è anche uno dei pochi che dice alcune verità scomode sul nostro paese colla forza di un linguaggio poetico. Non sono documentari i suoi film: le sue denunce, sempre precise e circostanziate, parlano alle emozioni, ci coinvolgono nello sdegno e ci invitano alla solidarietà senza prediche moralistiche.
A Venezia79, quest’anno, dopo un silenzio creativo di 11 anni, Emanuele Crialese è tornato con un film solo apparentemente autobiografico.
Ha raccontato una storia romana, degli anni ’70, quando radicali cambiamenti di costume e di mentalità cominciavano a farsi sentire, in Italia e persino nella Roma bigotta della borghesia medio alta, come quella dei Borghetti, da poco trasferiti in un lussuoso condominio con vista panoramica sulla città eterna.
Il padre, Felice (Vincenzo Amato), autoritario e reazionario, è fedifrago abituale; Clara (Penelope Cruz), la moglie, è abituata a rinunciare a se stessa e a sopportare gli scatti d’ira di lui, cercando di proteggerne i tre figli, e sfogando nella danza la propria voglia di vivere. La situazione dei Borghetti si fa vieppiù difficile da quando, alle soglie dell’adolescenza, la figlioletta Adriana (Luana Giuliani) avverte un profondo disagio ad accettare il proprio corpo: la femminilità non la seduce e il proprio nome non la identifica; vorrebbe essere chiamata Andrea e vorrebbe guidare amici e fratelli in imprese e giochi da maschiaccio, sfidando rischi e pericoli senza paura (ricorda un po’ Laure, la protagonista di Tomboy questa bimba infelice).
Clara vorrebbe aiutarla, ma non ha completamente le sue confidenze; vorrebbe parlarne col marito, ma non ottiene altro che rabbiose reazioni di scherno, che ribadiscono la sua rassegnata e dolorosa sottomissione, mentre nei suoi confronti ulteriori umiliazioni stanno per travolgerla.
Sono tempi oscuri per lei, nell’Italia di quegli anni in cui esistevano ancora gli ospedali psichiatrici, alcuni di lusso, in cui uomini e donne dolenti, in piena depressione, lontani dagli affetti, potevano essere curati con ogni attenzione premurosa, e sottoposti a un numero imprecisato di elettrochoc.
Il film ne accenna sommessamente: dopo la cura, la famiglia ancora una volta si sarebbe ricomposta, la mostruosa etica dei benpensanti avrebbe avuto la meglio e la morale dei bigotti si sarebbe ancora una volta presa la rivincita, lasciando irrisolti tutti i problemi e certo non migliorando le relazioni familiari.
Come si comprende, anche questo è un film che parla del nostro paese: il tema è quello di un tempo passato, ma forse non del tutto, perché l’oscuro conservatorismo che alberga nel profondo delle nostre coscienze sembra non abbandonarci mai e ogni tanto emerge apertamente, soprattutto nei momenti di crisi e di paura.
Il film non è, perciò, solo la storia autobiografica del regista che ha deciso di portarla alla luce, né la storia di un trans adolescente, è piuttosto la storia di come eravamo e di come potremmo tornare a essere: lo ribadisce il regista durante una bella intervista al Corriere della Sera, di cui riproduco qualche significativo stralcio:
[…..]come essere umano, e come cittadino, mi sento oppresso da questa atmosfera pervasiva di paura. Io non ho paura, anche se so di appartenere a una categoria di persone fra le più attaccate. So anche, però, che questo tipo di informazione non dovrebbe interessare a nessuno, perché non è inerente all’opera. Ho girato film che hanno come denominatore comune la marginalità, è quello il mio tema. Mi rifiuto di guardare al mondo sotto un profilo classificatorio….
[….]nel mio mondo ideale non c’è bisogno di sapere qual è il mio orientamento sessuale, chi mi sento, in chi mi riconosco».
Condivido le parole di Emanuele Crialese, e la rivendicazione di una vita privata libera e autonoma rispetto alla propria creatività artistica.
Il film, tuttavia, a mio avviso, pur trattando con commossa delicatezza i problemi difficili di un’adolescente in crisi identitaria, non convince del tutto: spesso le belle canzoni d’antan, le voci e le danze della Carrà, di Celentano o di Patti Pravo finiscono per schiacciare la storia di Clara, il personaggio intorno al quale sembra costruito il racconto.
La piccola Adriana, che è il personaggio più problematico, ne risulta a sua volta sacrificata, così da lasciare in molti spettatori la sensazione di aver visto un buon film i cui personaggi non sono del tutto risolti: incerta la scelta della protagonista; incerto il registro della narrazione in un quadro storico assolutamente plausibile.
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