Regia di Georg Wilhelm Pabst vedi scheda film
Giustamente considerato dalla critica uno dei grandi capolavori del cinema muto, “Diario di una donna perduta” di Georg Wilhelm Pabst rimane nell’immaginario collettivo anche per l’interpretazione di una splendida Louise Brooks protagonista anche di un’altra importante opera del regista come “Lulù, il vaso di Pandora da Wedekind.
Nel girarlo, Pabst, adatta ed esaspera le convenzioni del melodramma, ma le utilizza per rappresentare e denunciare, al di là della storia privata della sua protagonista, la sistematica confusione di valori che caratterizzò il periodo intercorso fra le due grani guerre del novecento. Il ritratto a tutto tondo che fa della sua protagonista gli consente così di smascherare una borghesia decadente e corrotta e di fornirci al contempo anche uno spaccato (abbastanza impietoso) della società tedesca prenazista, strutturato entro tre ambienti : la casa borghese col suo moralismo un po’ ipocrita e la torbida atmosfera da cui germina e nasce la corruzione e la sopraffazione sessuale; la casa di correzione dominata da un autoritarismo di cui né evidente il sottofondo sadico (le sequenze del correzionale sono davvero molto impressionanti; il bordello in cui la sessualità viene espressa con scoperta franchezza e che, al confronto dei due ambienti precedenti, sembra quasi un luogo di villeggiatura.
Violentata e messa incinta dall’assistente del padre farmacista che si rifiuta di sposarla perché la farmacia è ipotecata, Thymiane (Maria nell’edizione italiana) viene internata in un riformatorio. Restia a sopportare la dura disciplina di quel luogo riuscirà a fuggire e cercherà disperatamente di ritrovare la sua bambina ma finirà poi in un bordello del quale diventa la principale attrazione, alla fine ne esce per sposare un conte e, riabilitata così dalla società e si ritroverà a dover vestire il ruolo della direttrice dello stesso riformatorio in cui era stata richiusa: questa in estrema sintesi è la storia narrata nel film derivata dal romanzo di Margarethe Böhme adattato da Rudolf Leon e già portato sullo schermo da Richard Oswald nel 1918.
Pabst che qui perfeziona la sua tecnica espressiva e narrativa fatta di antitesi estreme(scenografie suggestive, inquadrature morbose e così via) cede però purtroppo nel finale accettando il compromesso di una conclusione troppo rassicurante (il cosiddetto lieto fine così caro al cinema dell’epoca) che cozza non poco con il resto della pellicola.
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