Regia di Corrado Ceron vedi scheda film
Il canto del cigno di Stefania Sandrelli (?) non avrebbe potuto essere più spiacevole: un'operazione di marketing dell'agenda 2030 foraggiato con fondi pubblici (Rai e Regione Emilia Romagna), che si risolve in uno spottone circondato da un nulla che si definisce film.
Le premesse per un solido film c'erano tutte: un'attrice importante, un comprimario (Paolo Rossi) di tutto rispetto, perfino un paio di scene con Vito, e una trama "aperta" che avrebbe dovuto lasciare ampio spazio ai protagonisti. Eppure fin da principio il ritmo è lentissimo, e la recitazione scarsissima. Il personaggio principale manca di verve, e non riesce ad avere presa sullo spettatore, neppure nel forzato tentativo di passare per cattiva o cinica. Il cinismo, anzi, è talmente ostentato da sembrare fuori luogo: lo si percepisce soltanto nelle reazioni, esagerate e spesso immotivate, degli altri.
Non stupisce, non emoziona, nè coinvolge, quest'anice annacquato: l'accostamento tra dramma e commedia non è cosa da poco e va gestito oculatamente. Ma i nostri non sembrano all'altezza dell'impresa: si sorride qua e là, ma non si solidarizza mai realmente, e tantomeno ci si commuove. La Sandrelli pare stracotta e impacciata, mentre Silvia D'Amico ha pochissimo da dire: raramente espressiva e comunicativa, è poi relegata entro un personaggio che sembra in balia degli eventi, dai quali non riesce proprio a districarsi.
L'intera operazione sembra assumere un inquadramento ideologico molto preciso nel finale, quando realizziamo finalmente l'ingombrante presenza della produzione Rai/Regione Emilia Romagna, che usano denaro pubblico per promuovere l'agenda 2030 massonica, che prevede - come ormai ovvio - il depopolamento. Ecco, quindi, che viene sdoganato il suicidio assistito, del quale l'epilogo dettagliatissimo, rassicurante e attentamente studiato, sembra una vera e propria reclame. E poichè ciò che non conosciamo nè vediamo, non possiamo desiderarlo, e viceversa: signori, benvenuti nel futuro distopico del WEF, dove l'infelicità si "cura" con sieri magici o uccidendosi (quindi uccidendosi o uccidendosi). Grazie agli enti pubblici per l'ennesima conferma del fatto che ormai la loro esistenza sia esclusivamente una minaccia alla società, attuata con... i soldi della collettività.
Considerato il bilancio globale dell'opera, e il fatto che l'unica parte che funziona è proprio il finale, cioè lo spot pro-suicidio, il tutto si sarebbe potuto risolvere in una clip pubblicitaria di qualche minuto. Purtroppo, però, in quel caso sarebbe stata riconoscibile per ciò che è (cioè una induzione al pensiero del suicidio). Meglio, quindi, farcirla con un'ora e mezzo di nulla imbastito a film, così da raggiungere lo scopo subliminale.
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