Regia di Luca Lucini vedi scheda film
Tutto il resto è noia...
“Tutto il resto è noia…” cantava Califano in quegli anni ‘70, il tempo del film, e noia assoluta, totale, è quella che assale fin dalle prime scene lo spettatore visionario anomalo, quello che non si arrende a un ruolo passivo e che, però, non riesce a ridere o a commuoversi con il resto della sala, in definitiva quello un po’ rompino, o anche detto originale, quando va bene.
Ma torniamo alle ragazze di carta.
Tutto il resto… ma di cosa? Di niente, ci sarebbe bastato poter apprezzare almeno una colonna sonora che andasse oltre Parlami d’amore Mariù, qualche squarcio paesaggistico suggestivo (peraltro difficile da trovare in un territorio devastato da vigneti e capannoni industriali) o, che so, una battuta meno scontata e melensa.
Niente, il resto di niente.
Eppure le sale traboccavano di concittadini di padre, madre e figlio, tre piccoli eroi del nulla, festosi nel vedersi ritrarre dal vivo, con la loro piazza dei Signori (e poco importa che spesso le locations siano prese da altre città ) con il loro dialetto, “ l’opacità del dialetto veneto” diceva Fellini che ricorse al genio di Zanzotto quando ce ne fu bisogno, in bocca ad attori che veneti non sono, come Sansa e Marcorè che ce la mettono tutta, con le piccole storie del tempo che fu, così calligrafiche e trite che solo la fantasia dell’autoproclamatosi pronipote di Germi poteva immaginare.
E, a proposito di Germi, quella locandina di Signore & Signori buttata lì, nel bagagliaio della macchina del gestore di cinema a luci rosse che se ne va altrove, perché deve chiudere il cinema corruttore della morale comune, ebbene, quella locandina non ci doveva stare, né ora né mai, è pura blasfemia.
E certo le sale non traboccarono quando Germi fece di Treviso la bandiera della provincia italiana tout court, una specie di categoria del suo spirito godereccio e pretigno, città di brave donne dedite a opere pie e mariti dall’adulterio usa e getta, con quell’accento un po’ molle ed effeminato, levigato e affettato, con quell’indulgere al dialetto anche se si hanno quattro lauree. Una specie di marchio di fabbrica.
Signore & Signori è una pietra miliare per parlare del nord-est, lasciamolo stare, por favor.
Ma, non volendo essere troppo negativi perché ognuno ha il diritto di vivere come può, diciamo che il film ha tutta l’aria di una fiction televisiva, anche se pure lì c’è di meglio.
Macchiette, nulla più, personaggi tagliati di grosso, una recitazione (quella dei ragazzi) da primo anno di scuola di recitazione, i tre grossi calibri, Pennacchi, Marcorè e Sansa, al minimo sindacale,
Tanta carne al fuoco, questo sì, l’incontro-scontro campagna e città, il percorso di formazione adolescenziale, le pulsioni represse e la scoperta del sesso, il prete umano con donna e figlio in sudAmerica che deciderà di raggiungerli in un trionfo di frasi fatte e autoassoluzioni, il postino che si converte sulla via di Damasco e passerà il tempo a giocare a scacchi col trans a cui aveva consegnato una raccomandata, la moglie del postino, una specie di Biancaneve sempre occhi sbarrati dallo stupore, che non capisce niente né di lui né del figlio.
Dulcis in fundo la ragazzina bella tipo Sapore di sale 1,2,3,4... che, finalmente, dice al ragazzotto di campagna che vuol fare l’amore. E dove vanno? Nella sala a luci rosse ormai dismessa.
Materiale per un trattato di socio-fisio-psicopatologia di 400 pagine.
C’è di che alzarsi sbuffando dalla poltrona, ma una forma di etica cinematografica costringe ad aspettare i titoli di coda che finalmente arrivano, dopo quasi due ore.
E allora ci consoliamo tornando a Zanzotto:
“ Ora la Voce è morta (si suppone) e al suo posto si è formato un rumore di fondo sempre più disarticolato eppure invadente e invasivo, una schiuma anonima di chiacchiere e suono-sound, congiunta ad un lampeggiare e scoppiettare di lustrini altrettanto orgiasticamente fasullo, entro l’unità dell’audiovisivo.”
www.paoladigiuseppe.it
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