Regia di Kiwi Chow vedi scheda film
Occasione sprecata: una buona idea inghiottita senza motivo da una sdolcinatezza fuori posto.
Il buon rating registrato su IMDB, il discreto successo il ambito festivaliero, nonché il tema della “pazzia” (uno dei miei preferiti in ambito cinematografico, perché sempre foriero di possibilità fantastiche e sognatrici) mi hanno spinto alla visione di questo film. Il soggetto è più che pregevole: la schizofrenia “dolce” e timida in via di remissione del protagonista, insieme ad un romanticismo impigliato, graffiato, sofferente a causa della lotta tra il reale e l’immaginato dalla mente di costui (splendida l’idea di mettergli in mano un telefonino col quale registra i suoi dialoghi, per poi riascoltare l’audio ed avere conferma o meno di aver davvero vissuto quegli eventi), danno a questo “Beyond the Dream” una consistenza di base molto interessante.
Se non che, due fattori guastano un po’ la festa.
Il primo è del tutto mio personale (ma sono convinto di non essere solo al mondo a dover fare i conti con questa cosa... si accettano eventuali, compassionevoli, solidali adesioni): gli orientali. Dichiaro solennemente con la mano sul cuore che non è razzismo, ma con i film orientali mi va sempre così: non distinguo le persone, le confondo, devo sempre fare “rewind” per capire se quello o quella è quello o quella della scena prima, dell’inizio, della fine. I nomi coi quali si chiamano, poi, col loro idioma privo di accentazione, non aiuta per niente, e i sottotitoli, per quanto ben fatti, non suppliscono affatto. Nella fattispecie, poi (tento di non spoilerare...), il sussistere contemporaneamente di un tempo reale con uno solo mentale, e l’accorpamento di due personaggi diversi nel corpo di una sola attrice... beh... c’è stato di che impazzire (delle due ore che dura il film, mi sono tirato su dalla poltrona dopo due ore e mezza....).
Il secondo, più oggettivo: se per lungo tempo il film, come dicevo, conserva un suo piglio dolcemente severo, quelle costanti venature di mielosità che lo bagnano qua e là pur senza disturbare ed alterare la tensione, man mano che si arriva alla conclusione esondano in un una marea di sdolcinatezza che rovina un po’ tutto fino a quella sequenza finale in slow-mo che guadagna tutto il mio accorato disappunto, se non altro per la mezz’ora persa dietro ai rewind.
Peccato, il film c’era. I personaggi e gli interpreti (comunque essi si vogliano chiamare) c’erano, l’idea c’era, ma temo che il regista Kiwi Chow abbia voluto maldestramente affidarsi ad un registro troppo facile e scontato (almeno rispetto all’impianto generale del film), forse per ottenere qualche consenso in più.
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