Regia di Mattson Tomlin vedi scheda film
Oops! I Did It Again!
Alziamo le mani.
Partendo dal presupposto che non si può perdonare alla sceneggiatura – scritta dallo stesso regista Mattson Tomlin, qui all’esordio dietro alla macchina da presa e che in precedenza aveva firmato il copione del “Little Fish” di Chad Hartigan, un lavoro che s’inserisce nel filone apocalittico-funzional-sensoriale comprendente, per quanto riguarda la memoria, anche “Embers” di Claire Carré e “Apples” di Christos Nikou e, per ciò che concerne il sonno, “Awake” di Marc Raso, mentre per i cinque sensi propriamente detti si ricorderà qui quello che li racchiude tutti, ovvero il “Perfect Sense” di David Mackenzie, e via via di questo passo con “Blindness” di Meirelles da Saramago e “BirdBox” di Bier, per la vista (e la non-osservabilità, ovvero l'oida che uccide), e poi la saga di “A Quiet Place” di Krasinski e l’unicum di “the Silence” di Leonetti, per l’udito, eccetera eccetera – la sciatteria legata a una “impossibilità tecnico-comportamentale” ch’è pure il plot-twist del film (quando anche solo per suonare il citofono ad un qualsiasi avamposto-roccaforte ti fanno la punturina di controllo per scoprire se sei un essere umano o un “lavoro in pelle” e poi scopri ch’è sufficiente trasportare un uomo gravemente ferito e una donna in travaglio a spruzzo per saltare ogni tipo di veloce controllo, senza contare poi che l’autista, leggermente ferito e ricoverato anch’esso in ospedale, ha superato/evitato anche gli accertamenti in loco nosocomiale), e che bisogna, al contrario, riconoscerle alcune belle/interessanti/felici ideuzze {ad esempio, EMP [Electro-Magnetic (Im)Pulse] a parte, il fatto che la storia narrata si svolge in un futuro molto vicino al presente, che però non è il nostro presente: infatti a partire da un qualche punto post-WW2 la time-line s’è biforcata ed ecco che “Since 1969 Raster Robotics has delivered cutting-edge A.I.!”, ovvero “Sin dal 1969 la Raster Robotics crea per voi intelligenze artificiali all'avanguardia!”}, occorre altresì evidenziare una discreta carica/forza drammatica (non proprio ricattatoria, anzi) che promana da quest’opera, contraltare ad “I Am Mother” di Grant Sputore, tutta legata, però, alla prestazione attoriale di Chloë Grace Moretz (“Kick-Ass”, “Let Me In”, “Texas Killing Fields”, “Hugo”, “Dark Shadows”, “Carrie”, “I Love You, Daddy” (da lei ripudiato, resta e rimane un piccolo capolavoro), “the Miseducation of Cameron Post”, “Suspiria”, “Greta” e la recente “the Peripheral”, da William Gibson e Nolan/Joy), coadiuvata dal co-protagonista Algee Smith e da Raúl Castillo [fotografia di Patrick Scola (“Pig” di Sarnoski), montaggio di Andrew Groves, musiche di Kevin Olken Henthorn e Michelle Birsky, produzione Miramax e distribuzione Hulu x gli U.S.A. e Netflix per il resto del mondo]. E questo però è tutto. Senza di lei: insufficienza piena.
“Ho commesso un errore…”, aka “Lei! Chi è? Ah, mi scusi, l’ho riconosciuta solo adesso: è la giovane donna che con malcelata grazia ha distrutto Boston. Prego, passi pure. Me lo fa un autografo? Noi siamo diretti in una delle 15 Portland degli iùésèi ch’è sopravvissuta al disastro, vuole unirsi al gruppo per completare il lavoro radendo al suolo un’altra ridente metropoli innocente?”
Cioè, dai, su, come si fa a non perdonarle qualsiasi cosa? (Ipertecnologico mantello dell’invisibilità compreso. Senza scordarsi ‘sto vizio di respirare sospirando in un megafono tanto che ‘sti poveri killer nazi-androidi sterminatori devono mettercela tutta per non cedere alla tentazione liberatoria di sbottare con un sonoro “Sgamata!”)
Oops! I Did It Again!
* * ¾ (***) - 5.625
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