Regia di Baz Luhrmann vedi scheda film
EPIFANIA ----L’idea di Luhrmann è che un mito non si possa rappresentare oggettivamente e i suoi film cercano volutamente una distanza siderale dalla biografia documentata. La favola può essere solo rivissuta, non raccontata: un film non è un saggio, bensì un susseguirsi di visioni, di idee-immagini. Coerentemente con questa impostazione, “Elvis” scaturisce dal racconto ambiguo, appassionatamente insincero del manager, il sedicente colonnello Parker con il vizio del gioco, il quale sul letto di morte, ripercorre con un sentimento misto di nostalgia, amore e rancore sopito, i momenti salienti della carriera del cantante. il rapporto fra protetto e mentore costituisce il motore della pellicola, un filo conduttore apparente, in quanto privo di esplorazioni nella psiche dei protagonisti. Il prodigioso talento del ragazzo del Mississippi portò alle stelle sia l’uno che l’altro. L’indubbia fragilità di Elvis fu sfruttata appieno dal presunto colonnello, il quale gli impose contratti, tour e persino allineamenti a posizioni politiche contro l’integrazione. Ma la vocazione del regista australiano non risponde alle esigenze di un’analisi psicologica approfondita, per questo la parzialità del testimone non ha necessità di essere smentita o integrata. I 160 minuti di pellicola fanno emergere dilatando e omettendo, a scapito della linearità della trama, la parabola del mito. Parker intuisce che per conquistare il mondo non basta una voce suadente e la musica: il cantante sul palcoscenico deve evocare un rito, deve entrare in possesso, come negli antichi baccanali, di chi lo ascolta. Ed ecco, il dimenarsi sulla scena, l’ancheggiare che Elvis riprese dall’adorata cultura afroamericano e che accentuò fino a farlo diventare mimesi dell’atto sessuale. Dietro la sacralità del dio, c’è la solitudine, una corte di parassiti, l’opportunista e maneggione sacerdote del tempio. Eppure l’epifania di Elvis avviene, purché si sappia che occorre assistervi da adepti al culto.
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