Regia di Baz Luhrmann vedi scheda film
Una storia triste, si respira un’aria da circo Barnum, quello che circondò Elvis e una certa America.
Anni Cinquanta, erano i tempi di Elvis, tutti si facevano il ciuffo come lui, e John Lennon dice alla mamma:
“Perché Dio non mi ha creato Elvis?”
“Perché ti ha destinato ad essere John Lennon”.
Quale tributo migliore al King del rock?
Luhrmann raccomanda di star fermi in poltrona su tutti i titoli di coda (si sa che lo spettatore medio tende a scappare, sbagliando grossolanamente)
Bene, ascoltiamo cosa dice:
“Ho voluto ampliare lo spettro della colonna sonora, è tutta nel cartello che chiude il film: perl’influenza che ancora oggi Elvis ha sulla cultura e la musica. E prego tutti quelli che andranno a vedere il film di restare per tutta la durata dei titoli, perché sono pieni di sorprese musicali, cominciano con la nuova canzone di Eminem e si chiudono con i Måneskin che suonano If I Can Dream duettando con Elvis sulle ultime note. Credo fosse molto importante sottolineare quanto fondamentale sia stato Elvis per tutta la musica venuta dopo di lui.”
Il semisconosciuto Austin Butler è stato scelto per fare Elvis, mano davvero felice di Luhrmann che racconta: “Austin era sempre nel personaggio, quando vedi le fan in delirio non stanno recitando, è lui che le porta al delirio.Austin ha vissuto Elvis per due anni, giorno e notte.”
“Elvis: icona, superstar della musica e tragedia americana”.
Quale delle tre etichette privilegiare?
Nessuna, convivono.
Ora, per la prima volta, nel film.
La grande presenza scenica di Tom Hanks, superbo animale da palcoscenico, fa da Pigmalione a questa performance che dà i brividi, tanto costringe ad assistere ad una storia che tutti credevamo di conoscere, e invece…
Quel ragazzone ciuffoluto, tutto curve e ammiccamenti, levigato e bellissimo come una bambola di porcellana, di quelle che si facevano una volta, quella super incarnazione del sogno americano, tutto Cadillac rosa e platee di donne, vecchie e bambine singhiozzanti e urlanti felici, quei reggiseni e mutandine lanciati sul palco almeno dieci anni prima che si scendesse in strada a urlare “L’utero è mio e lo gestisco io”, bene, tutto questo è il mito Elvis, e siamo ben felici di chiuderlo in un baule in soffitta.
Dopo Eivis di Luhrmann molte cose vanno ripensate da parte di chi ha sempre avuto l’immagine di Elvis voluta da tutta la propaganda che lo circondò, lo ingabbiò e sul suo nome incassò miliardi.
E il primo fu quel Tom Parker che lo perseguitò a vita.
Chi era Tom Parker? Il re degli imbonitori, lo dice lui stesso.
Si fece credere colonnello e non aveva neanche un passaporto, giocava e perdeva e così Elvis divenne il suo bancomat, aveva il genio dell’imprenditoria, a lui fregava niente delle qualità vocali di Elvis, a lui importava che le platee impazzissero e i conti in banca lievitassero.
Eppure, stando al film, non ce la sentiamo di dargli addosso.
Ognuno ha la sua verità, ognuno le sue vie di fuga dalla grande tragedia della vita.
Tom incontra Elvis, nasce un mito.
Chi c’è dietro il mito?
Tanta roba: ci sono i ghetti degli afroamericani, ci sono le voci incredibili dei neri che cantano nei pub fumosi di Memphis, c’è la povertà di una famiglia con il padre in galera, ci sono i sogni di un bambino che va a sentire i gospel in chiesa e immagina di volare verso la roccia della felicità.
C’è un completo rosa e mocassini neri per cantare sul palco la prima volta e muoversi come nessuno aveva fatto mai.
C’è tanta malinconia, una solitudine che ogni volta si ripresenta, muore la madre, finisce il matrimonio, bisogna smettere di ancheggiare sul palco, bisogna tagliare i capelli e andare a fare il militare due anni in Germania.
L’unico viaggio fuori da States e Canada, una fama mondiale e mai fuori dai confini.
E lui che da piccolo sognava di volare e si era fatto anche tre aerei; uno, Lisa Marie, il nome della figlioletta, un Lockheed JetStar 1329 del 1962 con interni in velluto fucsia, un rottame sulla pista di Graceland, venduto all’asta quattro anni fa!
C’è tutto questo ben nascosto dietro il mito patinato di un sogno americano che cominciò da lì e ci ha portato fino a Biden passando per Trump, Bush, Reagan, Nixon e compagnia cantando (e non dimentichiamo neanche la gloriosa saga dei Kennedy).
Erano anni felici? Tutto doveva cominciare? Le lavatrici e il frigorifero arrivavano in tutte le case?
Certo, come i televisori per vedere il funerale di Martin Luther King, morto più giovane di Elvis.
Era l’America che uccide e non vuole che si sappia.
In quell’America un ragazzino povero diventò una star, può succedere, visse per la sua musica e morì per quella, forse doveva ascoltare Priscilla, andarsene in un’isola lontana.
Luhrmann ci racconta una storia triste, il dispiegamento di mezzi cinematografici è, al solito, superbo, gli sceneggiatori hanno fatto faville e su tutto si respira un’aria da circo Barnum, quello che circondò Elvis e una certa America.
L’America delle grandi contraddizioni.
www.paoladigiuseppe.it
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