Regia di Ridley Scott vedi scheda film
Oggi, dopo la nostra lunga, crediamo esaustiva disamina de Il silenzio degli innocenti di Jonathan Demme, c’occuperemo del suo sequel, ovvero Hannibal, diretto da Ridley Scott.
Altisonante, venerando e da molti venerato regista che, certamente, non necessita di presentazioni, autore d’immani capolavori epocali, entrati di diritto e appieno nell’immaginario collettivo, come Alien e Blade Runner, cineasta celebrato a livello mondiale, dai suoi fan forse leggermente magnificato più dei suoi reali meriti, osannato per l’ingiustamente oscarizzato e sopravvalutato Il gladiatore, realizzatore di pellicole assolutamente pregevoli, qualitativamente raffinate e superiori alla media, director di perle come Black Rain e perfino di sofisticate commedie agrodolci e al vetriolo come Il genio della truffa, Scott è uno di quei registi comunque abbastanza equivoci poiché, come detto, la sua carriera è costellata di pellicole imprescindibili per ogni appassionato cinefilo che si rispetti ma, nella sua filmografia, compaiono anche titoli piuttosto imbarazzanti (pensiamo a Soldato Jane) oppure film semplicemente superflui e, onestamente, inefficaci.
Hannibal, dunque, in quale categoria del suo excursus registico possiamo collocarlo? Possiamo annoverarlo fra i suoi capolavori, possiamo inserirlo fra le sue opere migliori o, invece, ubicarlo nello scaffale riservato ai film presto archiviati della e dalla nostra memoria?
Ebbene, Hannibal fu distribuito pressoché in contemporanea dappertutto a Febbraio 2001 e non a fine 2000.
Già questa piccola annotazione dovrebbe dircela lunga in merito alla tipologia di film che avemmo di fronte e che il suo produttore Dino De Laurentiis, con plateale furbizia, ci servì.
A Febbraio, i giochi per i premi e i riconoscimenti più ambiziosi come gli Oscar, eh già, sono già chiusi.
Quindi, intenzionalmente, De Laurentiis volle soltanto confezionare, avvalendosi della regia di Scott, una pellicola di puro intrattenimento internazionale abbastanza commerciale, ben conscio che Hannibal non possedeva quei necessari crismi per poter far breccia nel cuore della giuria degli Academy Awards.
Poiché, infatti, trattasi solamente di un thriller di discreta fattura che non è né bello né brutto. Furono dunque immeritati gli spietati, troppo severi responsi della Critica dell’epoca che l’annientarono, seppellendolo sotto una coltre spaventosa di raccapriccianti stroncature eccessive. Altresì, dobbiamo dire che Hannibal, senz’ombra di dubbio, non rappresenta una tappa importante per Scott. Il quale, come appena accennato, lo girò su commissione affidatagli dall’ostinato De Laurentiis.
Nonostante la firma per la sceneggiatura degli egregi David Mamet e Steven Zaillian che trassero il loro adattamento dalla novella omonima dello scrittore Thomas Harris, malgrado il cast di grandi nomi, la suggestiva ambientazione fiorentina e l’impeccabile comparto tecnico, Hannibal non è però, forse, così inguardabile come si disse ma è comunque parecchio scialbo.
Trama:
il ricchissimo Mason Verger (un irriconoscibile Gary Oldman) ha messo una taglia di 3 milioni di dollari sul cannibale psichiatra Hannibal Lecter (Anthony Hopkins). Chiunque riuscirà ad acciuffarlo, verrà da Verger generosamente premiato in tali entusiasmanti termini monetari.
Lecter è ora in libertà, risiede a Firenze ove, sotto le mentite spoglie d’un nobile bibliotecario, indisturbato s’aggira lungo le vie più famose del rinascimentale capoluogo toscano.
Verger è stato mostruosamente sfigurato da Lecter ed è adesso disposto a tutto pur di ottenere feroce vendetta.
Ecco allora che la vicenda s’ingarbuglia.
L’ispettore italiano Rinaldo Pazzi (Giancarlo Giannini), allettato dall’ingente somma offerta da Verger, scopre Lecter e tenta, forse maldestramente, di consegnarlo alla giustizia.
Intanto, nell’intricata faccenda, s’intromette nuovamente Clarice Starling (Julianne Moore).
Ci fermiamo qui per giusti motivi in quanto, se non l’aveste mai visto, ci pare doveroso non spoilerarvelo.
Che dire? La prima mezz’ora di Hannibal è veramente insostenibile e oltre misura soporifera. Altro che giallo a combustione lenta. Osiamo dire che il film non carbura mai e, dopo la prima ora abbondante, diventa soltanto un grandguignolesco one man show d’un Anthony Hopkins ancora in forma relegato a un character bidimensionale tagliato con l’accetta.
L’aura irresistibilmente fascinosa riservata alla figura di Lecter dall’elegantissimo Jonathan Demme, eh già, qui viene strozzata in un’estremizzata caratterizzazione banale che lo confina in un angusto, elogiativo ritratto del Male più schematico e superficiale.
Un Male così forte e invincibile che battaglia contro personaggi moralmente integerrimi ma così tanto antipatici che allo spettatore è come se venisse chiesto, paradossalmente, di parteggiare strenuamente, di accalorato tifo perverso, per esso. Cioè per lui.
Un Male simboleggiato titanicamente da lui, sì, da chi sennò? Lecter che, trovandosi a combattere contro chi vorrebbe catturarlo e ucciderlo, uscendone vincitore da eroe, per l’appunto, dovrebbe rappresentare l’incarnata malvagità più crudele da statista delle perfide strategie più geniali, troneggiando fieramente al di sopra dei comuni, patetici mortali da lui intellettivamente e psicologicamente, anche carnalmente abbattuti e scarnificati, dentro e fuori.
Al di là della presenza accessoria di Francesca Neri nella parte della consorte di Pazzi, gli attori se la cavano tutti piuttosto bene ma Julianne Moore, per quanto molto bella, non regge il confronto con la ben più eclettica e brava Jodie Foster.
Anche in questo caso, però, non è colpa della recitazione della Moore. Clarice Starling fu e sarà sempre Jodie Foster. La Foster si rifiutò di girare Hannibal e, giocoforza, De Laurentiis fu obbligato a rimpiazzarla.
La Moore, malgrado il suo innato, conturbante, fortissimo sex appeal, non vale la Foster, probabilmente perché Clarice è una figura, sì, fragile ma al contempo volitiva, temeraria e tenacemente indomita nel suo inarrendevole animo di donna debole che vince ogni sua inconscia, ancestrale e affascinante paura, mentre la Moore, proprio per via della sua genetica sensualità troppo marcata ed evidente, stona per il ruolo e c’appare troppo, permetteteci di dirlo, donna cazzuta.
Detto ciò, Hannibal si lascia guardare volentieri. Perché, tutto sommato, non ha ambizioni artistiche e va preso per quello che è. Ovvero per un film di cassetta patinato ove Firenze viene al solito descritta e inquadrata come se ci trovassimo all’interno della Galleria degli Uffizi. Ma, al posto dei quadri più splendidamente naturalistici, assistiamo a un campionario pubblicitario di carine cartoline senz’alcuna profondità prospettica. Finiamo perciò col dire che Hannibal, rivisto oggi sotto un’altra prospettiva, è un film associabile a un abitante di Firenze che, spensierato, passeggia lungo Ponte Vecchio. Per un turista, sarebbe una nuova, lieta passeggiata, per chi è invece uno spettatore, non di passaggio, avvezzo a questo genere di film, costruiti a tavolino, Hannibal risulta un piccolo, insulso viaggio noioso e già visto. Sì, il cinefilo esperto non vede l’ora che tale passeggiata, seppur piacevole ma stancante, finisca e possa tornare quanto prima a casa per rigustarsi Il silenzio degli innocenti senza stomachevoli bis.
Curiosità: perché Clarice, nel doppiaggio italiano, diviene Clarissa? Perché il film è ambientato, per lo più, in Italia? Mah.
di Stefano Falotico
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta