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Hannibal

Regia di Ridley Scott vedi scheda film

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La recensione su Hannibal

di FilmTv Rivista
6 stelle

Barocco invece che stilizzato, moralista invece che amorale, estetizzante invece che disperatamente (quasi proletariamente) spoglio. E anche (purtroppo) perso dietro suggestioni da città d’arte (Firenze), orrori da cultura dantesca, morbidezze di gusto europeo. Così “Hannibal” secondo Ridley Scott, messo di fronte a “Il silenzio degli innocenti”, il ruvido “gotico americano” di Jonathan Demme. Altra scuola, quella di Demme, altra profonda volontà disturbante, altra - autentica - consapevolezza dell’incubo che può generarsi dall’infanzia e poi giacere là, sotterraneo, per riemergere in età adulta. Che il cuore delle avventure di Lecter e Clarice sia la storia d’amore tra Lecter e Clarice era chiaro fin dal film di Demme. Qui, però, diventa fin troppo esplicito, anche perché Scott ci illude, con la prima sequenza dopo i titoli (quella in cui Clarice in un’azione uccide 5 persone, viene sospesa dall’incarico e messa nel Guinness dei primati come la donna Fbi che ha fatto più vittime), facendoci sperare in una delle sue sterili virago (dalla Ripley di “Alien” a “Thelma & Louise”), per poi invece ricondurre tutta la storia nei binari (e nell’ottica) del “Cannibale”. Un signore, di gusti raffinati e gran cultura (lo è sempre stato), gourmet sopraffino, sviluppatissimo, macabro sense of humour, con un suo personale senso della giustizia. Che (questa volta) lo fa uccidere solo chi lo minaccia troppo da vicino o i bastardi potenti che rovinano la vita sua (dandogli la caccia) e di Clarice (togliendole l’unica cosa per la quale vive, il suo lavoro). Il difetto di Ridley Scott è di essersi limitato a dirigere un pezzo di una serie, senza impossessarsi di quegli elementi che potevano trasformare la saga di Harris in un film personale. Ovviamente, sa dirigere, soprattutto le scene d’azione; ma altrettanto ovviamente ha giocato d’astuzia e di belle maniere, arrivando al limite della confezione laccata. “Hannibal” non fa paura e tanto meno inquieta; non dà sobbalzi né dubbi; non si prende nemmeno il rischio del gore (e non si capisce proprio perché, secondo alcuni, avrebbe dovuto essere vietato). Finisce per essere un “film d’attore”, dominato da un Anthony Hopkins consumato e sornione, che ha trasformato un mostro in un eroe dei nostri tempi.

 

Recensione pubblicata su FilmTV numero 8 del 2001

Autore: Emanuela Martini

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