Regia di Ernest B. Schoedsack vedi scheda film
Col titolo “Gli ultimi giorni di Pompei”, la storia del cinema annovera ben quattro film dalle vicende e dall’intreccio spesso diversissimi tra loro, ed è curioso che i film più noti e più visti con questo titolo siano poi in definitiva i meno belli.
Quello che Carmine Gallone e Amleto Palermi girarono in piena età del muto, peplum roboante e pletorico, in perfetto anticipo sulle produzioni trionfalistico-littorie di “Scipione l’Africano”; e quello di Mario Bonnard con Steve Reeves, del ’59, drammone a tinte fosche in toga romana con gran dispendio di botole che si aprono sotto i piedi e malcapitati che precipitano in segrete vasche colme di coccodrilli. Un film alla cui realizzazione partecipò anche Sergio Leone come assistente alla regia.
Molto meno visti, ma certamente più interessanti, sono il film girato da Marcel L’Herbier nel ’50, autentica rarità di cui esistono ormai pochissime copie in circolazione, e quello del ’35, firmato e prodotto dalla coppia Ernest B. Schoedsack-Merian C. Cooper, già autori del primo fortunatissimo “King Kong”. Il film di Schoedsack e Cooper non ha davvero alcuna parentela con l’omonimo romanzo di Bulwer-Lytton, peraltro variamente trattato (e tradito) dalle altre citate versioni, ciascuna delle quali si prende ampie libertà rispetto al romanzo.
Qui infatti la sceneggiatrice Ruth Rose dichiara, in una didascalia posta in apertura di film, di aver tratto dal libro di Bulwer-Lytton solo ciò che le serviva per l’ambientazione della storia: la descrizione di Pompei, della sua vita quotidiana, dei suoi usi e delle sue attività. In tale scenario è ambientata una storia originale che si snoda con un percorso esemplare, ascendente, dove chi ambisce alla ricchezza ad ogni costo si perde, e chi ama il prossimo come se stesso si salva.
Il risultato è un kolossal edificante ma fortemente didascalico, e questo non è forse colpa del film ma del sistema di produzione vigente, lo studio system, che divideva i film per generi e all’interno dei generi li girava tutti uguali come schema. Infatti, anche Cecil B. De Mille, tre anni prima, col suo pur pregevole “Segno della croce”, era incappato nello stesso limite, pur avendo prodotto un’opera sfarzosa e spettacolare. Come a puntare sullo spettacolare, è il film di Schoedsack e Cooper: l’eruzione vulcanica e la distruzione della città sono il vero centro dello spettacolo e la trama è poco più che un sentiero per arrivarci, tra l’altro con disinvolture spesso imbarazzanti a dispetto di cronologie e tempi storici (il vero Ponzio Pilato della Storia, che qui appare ottimamente interpretato da Basil Rathbone destinato a diventare il più celebre Sherlock Holmes degli schermi, avrebbe avuto dai 120 ai 140 anni ai tempi dell’eruzione del Vesuvio. Questo per fare un esempio).
Il risultato, però, è un film comunque di buon livello che – a parte alcune annotazioni come la presenza di Rathbone e la stessa squadra tecnica di “King Kong” – offre più d’un motivo d’interesse. Nella recente rinascita di attenzione verso il peplum e il kolossal in costume, offre un modello di eleganza, intelligenza, gusto (magari “camp”), senza dubbio riconducibile allo stile hollywoodiano degli anni d’oro, a quella cifra produttiva che finiva inevitabilmente per essere una cifra artistica. La storia del fabbro che diventa gladiatore dovrebbe peraltro ricordare qualcosa agli spettatori odierni.
In ogni caso il film ebbe più successo per i suoi aspetti melodrammatici semplici che per i suoi aspetti inerenti la religione. Rathbone affermò spesso di ritenere la sua interpretazione in questo film la migliore della carriera; Preston Foster, al contrario, mostra i propri limiti d’impaccio proprio quando tenta di essere più convincente possibile.
Curioso che “Gli ultimi giorni di Pompei” di Schoedsack e Cooper non sia annoverato su numerosi testi dedicati al genere cinematografico del “peplum”, se non al cinema in generale, come sorprende il fatto che il film abbia colpito gli spettatori alla sua uscita, finendo per non resistere alla prova del tempo.
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