Regia di Jay Roach vedi scheda film
Sulla carta, aveva tutte le caratteristiche per essere la commedia più divertente dell’inverno. Una sceneggiatura di ferro, nella quale un giovanotto newyorkese un po’ maldestro incontra la famiglia della sua innamorata per una domanda di matrimonio in piena regola e, naturalmente, riesce a combinare soltanto disastri. Circondati da un cast di supporto ineccepibile, due interpreti formidabili di due generazioni diverse: Robert De Niro, nella parte del futuro suocero che dietro la tranquillità borghese nasconde idiosincrasie, manie e durezze di un agente Cia, e Ben Stiller, disorientato, entusiasta, perplesso, casinista. Situazioni e dialoghi esemplari si cadenzano con la scansione inappuntabile delle commedie della Hollywood classica: lo sguardo di De Niro che osserva il futuro genero dalla finestra, i primi imbarazzati convenevoli, le prime gaffe, l’incontenibile preghiera del ringraziamento improvvisata da Stiller a cena, un gatto equilibrista (che non rispetta le ceneri della nonna), un ex fidanzato vanitoso («Se devi seguire l’esempio di qualcuno, chi c’è meglio di Cristo?»), l’interrogatorio del suocero al futuro genero con la macchina della verità, la rovinosa reazione a catena innescata da Stiller sul prato di casa. Anche il regista pareva dovesse essere una scelta azzeccata: Jay Roach, che riusciva a far ridere con i due ”Austin Powers”. E invece ”Ti presento i miei“ è come un manicaretto cucinato da un cuoco scadente, o distratto, o (com’è probabile) incapace di maneggiare tempi (di cottura) raffinati e precisi come quelli della commedia. C’è sempre una lentezza di troppo nello scambio di battute, un raccordo di troppo nei passaggi di situazioni, uno slabbrarsi del ritmo comico (per cui, per esempio, la scena con Ben Stiller sul tetto e il disastro nel giardino sottostante non scende come una valanga ma tutt’al più come un dilatato stillicidio). Come se la regia fosse al servizio della pigrizia e la distrazione dello spettatore medio televisivo e perciò scegliesse di dilungarsi sempre un po’ troppo in ogni scena.
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