Regia di Zhang Yimou vedi scheda film
Degli antichi mestieri. Delle antiche tradizioni. Dell’antica arte di amare.
Profumi di agreste beltà, di ascoltata e melodiosa trasmissione di cultura e sapienza, di febbrili attese e di interminabili passi, orientati verso un’ardua attuazione di condivisa soavità, si fondono abilmente insieme, come un carezzevole infuso di celestiali erbe che destano un intimo senso di conforto e letizia. Lo spirito si eleva, gli occhi sgorgano fluida gioia.
La strada verso casa, contemporaneo a Non uno di meno, col quale ha in comune ambientazioni e talune tematiche, è un film di straordinario splendore, che pone in risalto una viscerale sensibilità per ciò che è vecchio, passato, anacronistico; è necessario per conoscere il presente. Riparare cocci, tessere drappi con un vecchio telaio, attingere acqua da pozzi, preparare il pranzo per coloro che lavorano quotidianamente alla costruzione della scuola, ospitare a turno il maestro; sono tutte espressioni di un modo lontano di concepire l’esistenza, atte ad infondere istruzione e rispetto, ad insegnare. E l’insegnamento è uno dei temi portanti di quest’opera: la scuola riveste un ruolo fondamentale nella vita del villaggio, con tutti i suoi abitanti attivi nella sua edificazione; il maestro è una persona che gode di grande rispetto e ascolto.
Il film è suddiviso con intelligenza su due livelli: il presente, ritratto in un ingrigente bianco e nero, e il passato, illustrato dal colore. E dal calore.
Nel presente troviamo un giovane uomo, Luo Yusheng, proveniente da una grande città e dalla modernità (il suv, i soldi), che torna al villaggio di campagna natio, immerso nel gelido biancore delle nevi. Il padre, Luo Changyu, amato maestro ivi per più di quarant’anni, è deceduto, colpito da una bufera mentre errava nei centri vicini alla ricerca di finanziatori per ricostruire la vecchia scuola; la madre, Zhao Di, rimasta sola, esprime con ostinazione il desiderio di far riportare la salma portata in spalla lungo tutto il tragitto e seguita a piedi dall’intera popolazione del villaggio, in modo che il marito, anche da morto, non dimentichi la strada di casa. Questa risoluta determinazione, che si scontra inizialmente con difficoltà di comprensione e di realizzazione (al villaggio ci sono solo vecchi e bambini), non nasce semplicemente dalla volontà di aderire ad un’antica tradizione, bensì dal bisogno di ripercorrere il cammino, lungo e travagliato, che li ha portati ad unirsi.
Ciò viene raccontato nel passato. Meravigliosi paesaggi bucolici, dai colori avvolgenti e intensi, soffici, vellutati, fanno da sfondo a quello che è il fulcro del film: la bellissima storia d’amore tra la giovane Zhao Di e Luo Changyu. Questi, appena giunto al villaggio per fare il maestro, in una scuola che deve essere ancora costruita, suscita immediatamente l’interesse, che sfocerà presto in qualcosa di irripetibile, di Zhao Di: numerose, ma colme d’encomiabili impeti di incondizionata e sublime dedizione, sono le fatiche e le prove che ella sostiene anche solo per vederlo da lontano, per catturare uno sguardo, per ascoltarne la flautata voce mentre egli insegna ai suoi alunni le regole del vivere e dell’armonia che disciplina la Natura e le sue stagioni. E non mancheranno ostacoli imprevisti, di varia natura, anche politica e sociale. Ma Zhao Di, d’umile estrazione e analfabeta, è testarda, è caparbia, è innamorata; i suoi occhi emanano vivo fulgore ed eccezionale incanto, sono occhi che scrutano la quieta e vasta campagna alla disperata e forsennata rincorsa dell’amato, obbligato a tornare in città per questioni di partito, sono occhi che ascoltano le armoniose parole del maestro, sono occhi che, sfidando le intemperie, si proiettano delicatamente in remote direzioni, aspettando con trepidazione il suo ritorno verso casa. Tale immenso rapporto viene descritto dal regista con somma levità; non ci sono baci, né grandi slanci di passione e gesti, nemmeno un contatto tra i due protagonisti, e pochissime sono le parole che essi si scambiano. Eppure si intuisce, e si capisce, da subito, che si tratta di una grande storia, fatta di piccole azioni: la cura con cui si preparano pietanze, l’affrontare una distanza più lunga e tortuosa nel recarsi alla fonte d’acqua solo per essere “costretta” a passare vicino alla scuola, un fermaglio ricevuto in dono, tanto semplice quanto accolto con beatitudine …
Semplicemente, una toccante e tenera storia, per un pregevole e commovente film.
Con questa pellicola, che vinse il premio della giuria al Festival di Berlino del 2000, e tratta da un romanzo di Bao Shi, autore anche della sceneggiatura, Zhang Yimou, coadiuvato da una magnifica fotografia, e da una insinuante e tenue musica, raffigura, con rigore ed efficace misura, un’epoca e un amore lontani. Ottima la direzione degli attori, preciso nel raffinato uso della profondità di campo e nei primi piani, dedicati al volto dell’attrice protagonista. Forse l’unica, comunque trascurabile pecca, è nella voce off, che tende a spiegare troppo.
Zhang Ziyi, all’esordio cinematografico, è bravissima e di una bellezza disarmante e ammaliante, pur infagottata in abiti larghi e pesanti, che nulla esplicitano. Le sue corse nella suggestiva campagna, ora malinconica, ora risplendente, non si dimenticano. Come i suoi occhi.
Mio padre un giorno mi raccontò che la prima volta che andò a casa di mia madre, la trovò ad aspettarlo sulla porta, appoggiata allo stipite, sullo sfondo della stanza buia. Sembrava una figura in un dipinto. Non avrebbe mai più dimenticato quell’immagine.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta