Regia di Donato Carrisi vedi scheda film
Non tutte le vittime diventano carnefici ma tutti i carnefici sono state vittime.
Da questa premessa inizia Io sono l’abisso, nuova regia di Donato Carrisi che torna, dopo La ragazza nella nebbia e L’Uomo del labirinto, con un nuovo thriller tratto anche questa volta da un suo romanzo.
Tra i giallisti italiani più famosi al mondo, lo scrittore pugliese dirige un thriller epidermico, quasi calligrafico, freddo e metodico come il suo protagonista, per poi evolversi in un dramma psicologico, concentrandosi sul trauma (come genesi del male) e sull’educazione alla violenza, aspetto che permea ormai ogni aspetto della nostra società.
Ogni buona azione non resterà impunita.
Sono diverse le inclinazioni del male elaborate nel racconto: femminicidi, abuso sui minori, ricatto, prostituzione minorile e pedofilia che cerca di analizzare socialmente senza colpevolizzare o criminalizzare nessuno ma tentando di comprendere come una vittima possa trasformarsi in carnefice.
In questo senso il male è un qualcosa che si ripropone inesorabilmente in un susseguirsi di causa/effetto difficile da spezzare perchè dal male nasce altro male, propagandosi e infettando chiunque capiti a tiro.
Come i tre protagonisti del racconto, personaggi che non hanno nome o un’identità che si rivela invece spezzata e (quindi) incompleta , ognuno potenziale vittima o carnefice (anche di se stessa) a secondo del caso, e vengono identificati semplicemente come “l’uomo che pulisce”, “la cacciatrice di mosche” e “la ragazza col ciuffo viola”. Tre personaggi solitari oltremodo segnati e feriti, ognuno a suo modo, e tre storie che inizialmente si sfiorano per poi deflagrare soltanto nel finale.
Carrisi è l'autore di un thriller anomale, un ibrido di generi di cui conosciamo l’identità dell’assassino fin dall’inizio e i cui omicidi (e risoluzione) rimangono volutamente sullo sfondo, non ci sono vere e proprie svolte in quanto i fatti vengono svelati in modo quasi didascalico (tanto e vero che l’unico plot twist della pellicola risulta quasi telefonato) puntando invece l’attenzione sul percorso emotivo doloroso e sofferto dei suoi protagonisti, sui loro traumi .
E se la storia in sé nelle sue diverse varianti funziona (abbastanza?) bene è nel dispiegarsi del racconto a rivelarsi pedante e troppo enfatico (il continuo tema dell’acqua, ad esempio), ancora troppo verboso nella forma e incapace di raccontare solo per immagini (probabilmente anche per deformazione professionale) lasciandosi anche dominare da un eccesso di ambizione autoriale, tra inquadrature sghembe, escamotage della messa in scena e sovrapponendo continuamente diversi piani temporali, giocando con le illusioni dello spettatore e costruendogli attorno un labirinto (mentale?) nel quale però e lui stesse che finisce per perdersi.
VOTO: 5
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