Regia di Ingmar Bergman vedi scheda film
Il Settimo Sigillo è un caposaldo della storia del cinema, una celebrazione assoluta della settima arte: forse il lavoro più acclamato di Ingmar Bergman – che ha firmato altri capolavori come La fontana della vergine (1960) e Fanny e Alexander (1982), il film è entrato a far parte dell’immaginario comune europeo.
La storia è incentrata sulla figura del nobile cavaliere Antonius Block (interpretato da Max Von Sydow), di ritorno dalle Crociate in Terra Santa, che in compagnia dello scudiero Jons vaga per una Scandinavia dilaniata dalla precarietà della vita: l’orrore della peste, il buio dell’ignoranza e la cieca superstizione campeggiano sullo sfondo di uno scenario apocalittico.
Lungo il cammino, ormai colmo di sgomento e miseria, si manifesta a Block la Morte in persona: la tetra figura è giunta a reclamare ciò che le appartiene, ma il cavaliere – non ancora pronto alla dipartita - lancia una sfida che il Tristo Mietitore non può rifiutare: si giocherà la vita in una partita a scacchi, cercando di interrogare l’avversario sui grandi quesiti dell’esistenza – la cui mancanza di risposte lo tormenta – primo fra questi l’incolmabile silenzio di Dio.
Il viaggio esistenziale condurrà il cavaliere nel ventre di un mondo spietato e irrazionale, teatro di numerosi incontri inaspettati: Block guarderà il volto della disperazione riflesso negli occhi di una giovane strega condannata al rogo, conoscerà il terrore per la dannazione diffuso dai predicatori e gridato dai flagellanti penitenti, ritroverà la speranza nel confronto con una solare famiglia di saltimbanchi, osserverà la stupidità umana e l’ipocrisia della moglie di un fabbro che – dopo averlo tradito con un attore – si ricongiungerà al marito piena di premure, assaporerà la paura della solitudine invocando una fede vacillante…ed infine - onnipresente al fianco del cavaliere - sorriderà la Morte, imbattibile nel mietere le pedine sulla scacchiera del mondo, mentre nel cielo incombe l’avvento di una terribile rivelazione divina.
Assoluto, eterno, sublime: bisogna ricorrere a parole di enorme intensità per descrivere il capolavoro di Bergman. Si tratta infatti di un’ opera che non si limita alla semplice dimensione cinematografica, superando con maestosa purezza e semplicità il confine della sfera introspettiva: forse nessuna impresa filmica ha saputo calarsi nell’interiorità umana con tanta sapienza e maestria.
Nella sua immensa bellezza visiva Il Settimo Sigillo risulta inestimabile: ambientando la storia in un limbo medioevale che sembra non avere fine, Bergman dipinge immagini di autentica liricità e potenza estetica. Il regista crea una visione unica e geniale congelata da un nitido, magistrale bianco e nero, mezzo espressivo carico di poesia ed energia narrativa adoperato su lezione dei grandi registi del cinema tedesco degli anni’ 20; impossibile non associare l’oscura stilizzazione della figura della Morte a personaggi indimenticabili partoriti dalla mente di F.W.Murnau: ella si muove infatti nella spettrale rigidità del Nosferatu (1922) e ammantata come il diavolo Mefistofele nel Faust (1926). Trionfa poi l’impatto trasmesso dalla composizione dell’immagine – sempre calibrata, funzionale a mostrare elementi e tagli di visuale intrisi di simbolismo – ed emoziona la sostanza pittorica e suggestiva dei paesaggi e degli ambienti che incorniciano le vicende dei personaggi: magnifiche le sequenze iniziali sulla riva del mare, che coinvolgono lo spettatore come l’ouverture di una sinfonia; Bergman gioca con le atmosfere irreali dell’espressionismo veicolandole in una dimensione storica e disperatamente umana.
Ma il fulcro dell’intera pellicola sono i personaggi: sette individui (tenendo conto della Morte) come i sette sigilli dell’Apocalisse di Giovanni, misteri che schiuderebbero la fine del mondo, e sette come i vizi capitali. Gli esseri umani chiamati a conoscere la Morte incarnano la pateticità dell’uomo adombrato dall’onnipotente/sovraumano, che recitano come attori nella commedia tragica della vita.
Bergman ha sicuramente pensato a Don Chisciotte e Sancio Panza nel dare vita a Block e al suo fido scudiero Jons, ritraendoli in una versione ancora più distorta e malinconica di quella elaborata da Cervantes: il cavaliere è una persona colta, torturata dall’assenza di scopo e significato della sua vita ma incapace di concedersi alla Morte; Jons è un uomo cinico, che si rassegna all’inutilità dell’uomo dimostrando una pietas del tutto anti-religiosa.
Profondamente emblematici sono anche gli altri protagonisti: la famiglia di artisti girovaghi, (composta dal giullare Jof, la giovane moglie Mia e dal neonato Mikael) colti nella loro ingenua e disincantata allegria, rappresentano l’innocenza in un mondo dove regnano la caducità della vita e la violenza; Jof risulta infatti dotato della capacità di cogliere visioni che agli altri sono precluse: lo vediamo contemplare la manifestazione della Vergine Maria (rappresentata in una scena di pura grazia), notare la presenza innegabile della Morte al fianco del crociato Block e avvertire il disagio spirituale nella tempesta che precede lo schiudersi del suddetto “ultimo sigillo”.
Caratterizzanti sono anche il fabbro Plog – stolto, rude ma sincero – e sua moglie, che incarna la lussuria nell’adulterio cui complice è l’attore Skat (che incarna la dedizione agli ultimi piaceri prima della fine, sarà infatti uno dei primi che la Morte porterà con sé); queste ultime figure costruiscono un ponte analogico con alcuni personaggi delle novelle del Boccaccio.
Di notevole qualità e realismo storico è inoltre la ricostruzione della Svezia del XIV secolo, che si avvale di scenografie essenziali ma assolutamente attendibili: Bergman ricalca in questo aspetto la licenza artistica di cui si avvalevano i teatranti nell’Inghilterra ai tempi di Shakespeare, dove le ambientazioni sul palcoscenico erano suggerite da pochissimi elementi materici, affinché lo spettatore potesse immedesimarsi senza distrazioni nei monologhi degli attori.
La sceneggiatura, curata direttamente dal regista, è un miracolo di incanto teatrale: i dialoghi tra i personaggi si diffondono nella scena con disarmante semplicità, arrivando a commuovere lo spettatore con la loro autentica grazia. Bergman compie un vero prodigio nel celebrare la vita attraverso la poetica della Morte, rivelando grande versatilità nel saper suscitare tenerezza, orrore, ironia e paura.
La struttura narrativa e sequenziale della pellicola risulta fluida e ineccepibile, grazie soprattutto al montaggio che concatena gli eventi in una spirale dalla drammatica conclusione.
Straordinario sotto ogni punto di vista, Il Settimo Sigillo racchiude nella sua natura poliedrica e sfaccettata tematiche di interesse universale: il regista pone una domanda oggettiva e non indifferente - quella sul significato della Morte - e, manipolando con acutezza e mestiere le potenzialità del linguaggio cinematografico, fugge da ogni possibile risposta, considerando un unico orizzonte di speranza (a salvarsi dalla mietitura fatale sarà la famiglia di saltimbanchi, mentre il resto della compagnia andrà incontro al suo destino); il tema della religione è più volte affrontato nel corso del film: l’immagine ricorrente del Cristo agonizzante sulla croce simboleggia l’adombrarsi del conforto divino, lo stesso che Block vorrebbe estinguere nella sua anima per venire a conoscenza del suo vero ruolo nel mondo. Intensamente atroce è inoltre la sequenza che mostra la processione dei penitenti – una delle scene visivamente più forti e indelebili, altrettanto indimenticabile dal punto di vista tecnico - rappresentati mentre s’ infliggono sofferenze immeritate nella speranza di salvarsi.
Dinnanzi ad un’opera di tale statura è pressoché impossibile parlare di scene madri, poiché l’intera pellicola è una successione di scene altamente significative, veri e propri microcosmi di bellezza multiforme e palpabile. Restano tuttavia celeberrimi alcuni passaggi che ancora oggi donano linfa vitale alla storia del cinema: oltre ai numerosissimi tocchi di regia e segnali di stile – basti pensare all’uso sfrenato ed ipnotico dei dettagli (il corvo che vola tra le nuvole grigie nelle prime inquadrature, la scacchiera ingrandita a tal punto da sembrare un’irrisoria allegoria della storia intera, il fascio di luce solare che si deposita su uno dei personaggi appena ucciso dalla peste…) – Bergman dà respiro a momenti dissacranti come il dialogo tra lo scudiero Jons e il pittore di affreschi macabri, o struggenti come il confronto tra Block e la ragazza da tutti ritenuta una strega complice del demonio (vittima dell’ottusa ignoranza della chiesa), o catartici come il tragico incontro di tutti i protagonisti con la Morte nel castello del nobile crociato (momento terribile e confortante e allo stesso tempo)…ma la scena più assoluta, satura di una potenza sacrale e profana, è quella finale: lo sguardo visionario di Jof si posa sulla danza macabra che corona all’orizzonte un rilievo in contrasto con le nuvole grigie; sette sagome scure (tra cui anche la moglie di Block, ritrovata dopo anni), a capo di tutte la Morte, avanzano in un ballo consapevole e dannato alla volta di un mondo ignoto. Questa immagine mozzafiato celebra il trionfo della Morte, che di tutto e di tutti è sovrana.
E’ raro incontrare nel mondo della cinematografia una personificazione tanto efficace della Morte: uno dei film che ha trattato – seppur in chiave umoristica – la stessa figura è The Meaning of Life (1983),la monumentale commedia del gruppo di cabaret britannico “Monty Python” dove la Morte giunge nel mezzo di una cena tra amici a rivendicare le loro anime. Il regista Marcel Camus nel 1959, con la sua pellicola intitolata Orfeo Negro, propone la stessa tematica in chiave assolutamente drammatica: la Morte ha qui i connotati di un uomo travestito da scheletro che perseguita i vivi nel mezzo del carnevale brasiliano a Rio. Woody Allen, un altro grande regista, si rappresenta nel suo capolavoro comico Amore e Guerra (1975) mentre l’Oscura Signora (stavolta munita di falce e coperta da un sudario bianco) lo conduce nell’aldilà sulle note di Prokofiev.
E, a proposito di colonna sonora, Bergman ha scelto come commento musicale per la sua epopea tragica alcuni canti gregoriani tratti dal Carmina Burana di Karl Orff: nulla di più consono per trasmettere al racconto la tensione epica che lo caratterizza.
Il regista di questa opera d’arte, ovvero la mente geniale e controversa che ha partorito Il Settimo Sigillo, è accostabile per talento ad un numero ridotto di cineasti altrettanto importanti: parliamo di autori del calibro di Fritz Lang, Louis Bunuel, Orson Welles, A.Tarkovskij, Akira Kurosawa e Stanley Kubrick.
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