Regia di Ingmar Bergman vedi scheda film
Per mattone, molti spettatori (diciamo Fantozzi e colleghi al cineforum ne Il secondo tragico Fantozzi) intendono un film dal tasso impegnativo assai elevato. Più che vilipeso, Il settimo sigillo è stato continuamente spernacchiato e preso in giro (c'è una squisita parodia che la Gialappa's band ha realizzato per Mai dire Martedì), a causa dell'argomento tratttato, già abbastanza tetro, in maniera molto cupa ed inquietante. Però non lo si può liquidare così, non sarebbe affatto giusto. Ingmar Bergman dirige un'opera impegnata sì, ma che vola alto, riflette con asciutta disillusione sul tema: più che sulla vita e sul suo inesplicabile significato, è interessato alla morte e alle sue conseguenze. E parlando della morte non si può prescindere dal chiedersi come si muore. E perché. Ma allora Dio dov'è? Bergman usa i suoi personaggi mortali (in cui probabilmente si identifica, in ognuno di loro) per dire la sua ed interrogarsi sulla fede e sulla religiosità.
Un film profondamente ateo ed anarchico perché non ha più speranza nell'intervento divino, si affida non si sa a che cosa (lo spirito di rassegnazione è ben evidente, anche perché ambientato in un tempo remoto, quello delle crociate dell'alto medioevo) e costruisce con energia il ritratto della Morte (un iconico Bengt Ekerot), legata all'iconografia classica ma originale nel suo sviluppo intellettuale. Di gran lunga il personaggio più memorabile di questo funereo e disilluso film, la Morte gioca a scacchi con il cavaliere, si piglia beffa dei mortali, afferma la propria superiorità ovvia, si permette molti lussi. La partita a scacchi è solo una parte del racconto, ma è entrata nella leggenda per la sua genialità. Talora un po' tedioso, certamente lento a sprazzi, di non sempre facile presa, ma che fascino inquieto trasmette questo disperato film.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta